RADIOHEAD | Kid A Mnesia

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RADIOHEAD
Kid A Mnesia
XL Recordings
2021

La logica del pop muta in proporzione al sentimento estetico di un’epoca. All’alba del terzo millennio, in cui synth, laptop e ProTools hanno definitivamente rubato il posto al classico armamentario di chitarra, basso e batteria, i Radiohead smettono i panni della classica guitar band e comprano un mucchio di attrezzatura digitale per iniziare le registrazioni di “Kid A” (EMI/Parlophone, 2000), album su cui mette ancora mano il produttore Nigel Godrich, lo stesso che fece miracoli per “OK Computer” e del cui apporto si sono serviti anche noti artisti quali Beck, R.E.M. e Pavement.

 

Tra l’ottobre del ’99 e l’agosto del 2000 la band affronta contemporaneamente il lavoro in sala d’incisione (effettuato in quattro posti differenti: Parigi, Copenaghen, Oxford e gli Abbey Road Studios di Londra) e un breve tour europeo durante il quale presenta parte del nuovo materiale. Dalle sessions provengono circa una trentina canzoni, ma solo undici troveranno posto su “Kid A”, con quelle che restano i Radiohead appronteranno, invece, la tracklist del successivo “Amnesiac”.

Pubblicato ad ottobre, “Kid A” (il cui titolo dovrebbe ispirarsi ad un progetto di Carl Steadman riguardante un lavoro di Jacques Lacan battezzato “Kid A In Alphabet Land”) non è accompagnato da alcun singolo, né prima né dopo la sua uscita. D’altronde, recuperare un hit radiofonico dalla scaletta dell’album sarebbe un vano tentativo.

Si tratta, in effetti, di un’opera spiazzante, molto al di là dei consueti canoni stilistici che il gruppo ha sviscerato nei suoi dischi precedenti, lanciata a rotta di collo sulle tracce di un sound squisitamente postmoderno, che filtra con notevole coraggio eterei umori filo-Warp, ariose concenzioni mingusiane (ma potremmo anche dire ellinghtoniane oppure colemaniane) ed iridescente popedelia elettroacustica.

Tuttavia, stando alle dichiarazioni dei diretti protagonisti, il disco più ascoltato durante il periodo in cui “Kid A” veniva lentamente alla luce fu “Remain In Light” dei Talking Heads (ancora loro), indubbiamente uno dei migliori esercizi di commistione tra generi che l’avant pop di tutti i tempi possa vantare. Proprio questo guardare “oltre” l’orizzonte del pop, analizzare e dunque esplicitare cosa si debba intendere oggi per musica pop, rende i Radiohead un gruppo così speciale e unico nel panorama odierno.

Se per “popular” dobbiamo intendere un prodotto musicale fruito su larga scala dalle masse, allora qualcosa ci è più chiaro, ed è possibile fugare anche quel briciolo di scetticismo che risiede nella mente del nostro gentile lettore, giustificando, al tempo stesso, il motivo per cui un disco come “Kid A” debba comunque essere considerato “pop” nonostante sembri volgere da qualche altra parte.

Difatti, non c’è tanto da sottilizzare se ciò che oggi gruppi e artisti ci propinano sia abbastanza rock, molto techno, meno ‘post’ o più ‘avant’ di qualche cosa. È importante invece comprendere che nella fase in cui ci troviamo i mezzi utilizzati dai musicisti sono “popolarmente” cambiati rispetto a quelli tradizionali, così com’è “popolarmente” accettato dal pubblico il fatto che un “pattern” elettronico abbia insito in sé una valenza e un’efficacia “pop” pari a quelle di un canonico giro di chitarra.

Va da sè che la natura o le caratteristiche del medium usato finiscano per influire sulla forma-canzone e sulle sue proprietà ritmico-melodiche, ma se questo stravolgimento preserva comunque quel senso di piacevole ripetitività armonica (“una delle grandi virtù della musica pop è che usa la ripetizione, mentre uno dei suoi più grandi difetti e che spesso la usa fin troppo”, affermò una volta, col suo solito acume, Robert Wyatt), allora la sacrosanta essenza del pop rimane, nonostante tutto, sana e salva.

“Kid A”, allora, non è altro che il prodotto di questa lungimirante visione del pop, una musica creata principalmente con strumenti che dialogano tra loro utilizzando un freddo linguaggio binario. Come ammonisce Thom Yorke in Idioteque, “Ice Age Coming”, “l’età del ghiaccio è ormai alle porte”. Una civiltà avanzata la cui espressione artistica, vuoi per immagini, vuoi per suoni, viene oggi universalmente forgiata “a freddo” con l’aiuto di silenziose connessioni a rete, schede video e potentissimi microchip. Dal punto di vista della sensazione (per non dire del tatto) tutto ciò che l’uomo-artista riesce a creare con questi mezzi ci appare incontaminato e algido ma al tempo stesso ricco di inesauribili forme e possibilità d’essere, guarda caso proprietà, queste, che rinveniamo in un cristallo di ghiaccio visto al microscopio.

Quest’orizzonte di senso può essere tranquillamente ravvisato nella titletrack dell’album, un computer parlante dietro una cortina di liquidi rintocchi e frames elettronici, dove ogni tanto fa capolino il beat di una drum machine mescolato ad una calda linea di basso che impedisce al pezzo di evaporare del tutto nell’etere. In altre parole, gli Autechre, Brian Eno e Aphex Twin citati ognuno a turno, ma in modo assai personale, nel giro di un solo brano.

Trasportata, invece, dalle note di una tastiera Roland (il cui mood richiama un’evanescente melodia liturgica), l’iniziale Everything In Its Right Place si propone quasi mediante la stessa strategia, ma con un pathos e una sensibilità molto più marcati grazie alla sfavillante voce del leader che cresce d’intensità attimo dopo attimo, sfaldandosi a tratti in tremolanti echi sintetici e disturbi di frequenza.

Con The National Anthem, introdotta e sorretta da un poderoso ed inquietante riff di basso (inciso in studio da Yorke stesso) siamo improvvisamente catapultati in una New Orleans versione “Blade Runner”. Un’orchestra di fiati e ottoni impazziti nell’idea di coniugare o quanto meno spingere sulla medesima sponda schegge di pop, frammenti space-rock e rottami funky, trascinati a riva da spaventosi cavalloni free-jazz; un azzardo strepitoso che serve caldi in tavola U2, Primal Scream, Hawkwind, Charles Brown, Sun Ra, Ornette Coleman e, naturalmente, l’ultimo Miles Davis elettrico.

How To Disappear Completely è invece la classica pop ballad intrisa di trasognata malinconia (diremmo quasi sulla scia di Let Down presente su “OK Computer”) che in mano ai Radiohead acquista inevitabilmente il sapore dell’originalità fuggendo da facili clichè. Si tratta di uno dei rari brani dell’album che forza l’attenzione sulla voce del leader, altrove volontariamente relegata in secondo piano oppure trasfigurata nell’accento dagli esperimenti di editing al computer svolti in sala d’incisione.

A seguire Treefingers, un ambient strumentale le cui rarefatte atmosfere diresti completamente riprodotte grazie ad un sintetizzatore mentre ciò che senti non è altro che un “taglia e incolla” operato sulla chitarra campionata di Ed O’Brien. A questa pace si contrappone, tuttavia, il caustico impeto sonico di Optimistic, chitarre e basso che tornano prepotentemente in superficie incapaci però nel seppellire l’ennesima, superlativa prova vocale di Yorke che qui interpreta uno dei testi più espliciti e carichi di significato mai usciti dalla sua penna.

Le sorprese sono però ancora molte ed è davvero un piacere aver a che fare con una band che non offre alcun indizio su ciò che ti offrirà da ascoltare nel brano successivo. Limbo diviene così la stanza degli specchi per le mille possibilità canore del leader, mentre il luccicante ardore techno-industrial di Idioteque dirotta la poetica Radiohead nei pulsanti bassifondi di Chicago e Detroit.

Giusto il tempo per essere avvolti dai nervosi drones kraut rock di Morning Bell (tempo che cammina sui 5/4 e una fluttuante linea di piano a rifinire in lisergia il tutto) ed ecco che chiude il sipario l’onirica e straniante dolcezza di Motion Picture Soundtrack, un brano forse inutile come la breve traccia nascosta che segue, ma che corrobora la tradizione Radiohead d’inserire nei propri album vellutati soundscapes ispirati all’immaginario cinematografico.

Disorientante e un tantino difficile da masticare ai primi ascolti, “Kid A” affascina sulla distanza, proprio perchè progettato come plurisfaccettato corpo unico da esplorare, comprendere ed interpretare secondo l’ansia creativa di chi l’ha generato.

Pur non essendo stato pianificato alcun singolo, tour o video per la sua promozione, il disco balza immediatamente in testa alle classifiche statunitensi rimanendovi per oltre un mese. Le interviste concesse dal gruppo sono sporadiche, ma la tensione generata nei fan da questa anticommerciale scelta di porsi fuori dal raggio dei riflettori si placa allorchè Yorke e soci presenziano il 14 ottobre del 2000 ad una puntata del “Saturday Night Live”, il popolarissimo show americano trasmesso via satellite dalla NBC, eseguendo dal vivo (con ensemble di fiati e ottoni a corredo) National Anthem e Idioteque.

Un avvenimento che deve esser visto non solo come la consacrazione definitiva di un gruppo musicale ormai acclamato, ma anche come il più classico dei rituali “pop” riservati ad uso e consumo delle folle.

Nel frattempo Tom Yorke incrementa il numero delle sue collaborazioni (ricordiamo, giusto di passaggio, le precedenti esperienze insieme a DJ Shadow negli UNKLE di James Lavelle e la sua apparizione cinematografica con Jonny Greenwood nei Venus In Furs, la All Star Band protagonista di “Velvet Goldmine”, pellicola prodotta da Michael Stipe) duettanto dapprima con Bjork nell’album “Selmasongs” (colonna sonora approntata dall’artista islandese per “Dancer In The Dark”, film diretto da Lars von Trier) e giocando poi un ruolo preminente in This Mess We’re In, forse tra le poche cose riuscite di “Stories From The City, Stories From The Sea” album sempre del 2000 intestato a PJ Harvey.

“Amnesiac” (EMI/Parlophone, 2001), quinto album della band, vide invece la luce il 5 giugno dell’anno successivo. Diciamo subito che prendere confidenza con gli undici titoli ivi raccolti costa meno impegno rispetto all’esercizio d’ascolto richiesto da quelli che appartengono a “Kid A”. L’afflato sperimentale che era caratteristica prominente di quest’ultimo non manca di esplodere in diversi episodi, ma si avvertono subito delle differenze con l’opera precedente in ragione di una ritrovata loquacità chitarristica e di un maggiore spazio riservato alla voce “naturale” di Yorke quale strumento principale atto a condurre la melodia.

Il fatto che tutti i pezzi risalgano, come abbiamo già detto, al medesimo periodo in cui venne approntato “Kid A”, ci porta inoltre a pensare che il gruppo abbia posto molta cura su ciò che doveva alla fine apparire in ognuno dei due album. Qualcuno, giustamente, si starà anche chiedendo perché i Radiohead non abbiano scelto di utilizzare tutto il materiale registrato all’epoca per pubblicare un unico doppio album.

Data la notevole sterzata verso un suono adulto e finanche più audace rispetto a quello di “OK Computer” (dove comunque era possibile ravvisare qualche protoidea di quel che poi si sarebbe compiaciuta di diventare la musica dei Radiohead), la pubblicazione di un doppio avrebbe comportato da un lato, per il pubblico, uno sforzo d’identificazione con l’attuale registro sonoro della band abbastanza traumatico (molti già stentavano, all’epoca di “OK Computer”, a riconoscersi nei Radiohead di Creep oppure di My Iron Lung), dall’altro, per le composizioni, il pericolo che potesse andar smarrita (nella fatica di un tempo maggiore d’ascolto) la concentrazione adatta per apprezzare al massimo grado tutte le idee e le sfumature ritmiche da esse proposte.

Più saggia, dunque, la strategia di elargire e lasciare sedimentare questa nuova visione del pop nel letto di due distinti album. Ma è poi una nuova visione del pop o, piuttosto, una vera e propria “amnesia” del pop quella che i Radiohead elargiscono con “Amnesiac”?. Diciamo po’ l’una e po’ l’altra insieme.

Al pari di Giano bifronte il disco mostra due facce sulla stessa medaglia. Come Tom Yorke sottolineò in un’intervista, “osservando l’immagine riportata sulla copertina di “Kid A” si ha come l’impressione di stare a guardare le fiamme di un incendio da lontano. “Amnesiac” è sotto forma di suono quel che si dovrebbe provare stando fisicamente tra quelle fiamme”.

Indubbiamente la sensazione di “freddo” che avvertivamo in “Kid A” si attenua adesso per lasciar posto ad un groove sonoro più caldo e avvolgente, sul quale transita la dolente malinconia e l’acuto senso allegorico-simbolico delle parole.

“Amnesiac” si apre con Packt Like Sardines In A Crushed Tin Box, austero battito tribale scandito dal suono di un oggetto metallico percosso metronomicamente (una pentola da cucina, un tubo di ferro? Chissà …) al quale si affianca poco dopo un incisivo drumming elettronico. Poi chitarra e basso all’unisono e la voce quasi irriconoscibile (diresti quasi che sia un altro a cantare) di Yorke che domina senza sforzo sopra un luna-park di loop, campionamenti e pattern digitali. Ottimo inizio, alla faccia di chi dava già per spacciato il propulsivo senso melodico del gruppo.

Al contrario, la successiva Pyramid Song nasce lenta e ipnotica dai tasti impacciati di un piano acustico. Spunta poi una batteria che sembra avere difficoltà nel seguire il tempo del pezzo, nel cui cuore s’impianta un flessuoso suono d’archi avviluppato intorno alla voce in trance del leader.

Con Pull/Pulk Revolving Doors siamo giusto dalle parti di DJ Shadow o simili. Voce trattata al sampler, scratches, bassi distorti, sbuffi hip-hop ed effetti sonori da video-games. You And Whose Army? inizia con un canto sommesso e un tenue arpeggio di chitarra. Poco alla volta entrano in gioco gli altri elementi della band con basso, batteria e piano, mentre il canto, sempre soave, si eleva prepotentemente al cielo.

I Might Wrong propone, da par suo, un’atmosfera sinistra e sintetica. Il ritmo, veloce ed incisivo, proviene principalmente da un’accentuata chitarra new wave, un basso slappato che scorreggia il funky nero-catrame dei Gang Of Four e da breakbeats affilati come lame di rasoio, mentre la voce di Yorke si deforma e sdoppia in un fascinoso gioco di echi.

Knives Out è, al contrario, la canzone più “tradizionale” dell’intera raccolta poiché richiama, sia nella trascinante melodia delle chitarre che nella linea vocale in falsetto, il sempreverde guitar-pop degli Smiths. Risultato: un’obsoleta, ma sempre piacevole, visione del pop.

Lessata in un mood più atmosferico e sub-lunare The Morning Bell/Amnesiac è, invece, il sottile cordone ombelicale che lega “Amnesiac” a “Kid A”. Segue Dollars & Cents, che propelle la sua anima jazzy nel ticchettio del charleston, mentre gli arrangiamenti di tastiere, basso e di una chitarra leggermente dissonante rivolgono lo sguardo al minimalismo cosmico di Faust e Can. Risultato: chiara amnesia pop.

Ancora dopo, Hunting Bears è musica informale che respinge ogni tentativo di mutarsi in melodia, un lento e breve strumentale contraddistinto dalla cadenza asciutta, pacata (quasi faheyana), di una solitaria chitarra acustica.

Like Spinning Plates rimane invece sospesa dalle parti di una costellazione astrale a noi sconosciuta. La voce di Yorke tocca in alcuni momenti il climax celestiale dei toni wyattiani, mentre alle sue spalle il suono di un moog kraut rock fluttua sopra il ribollente magma sonoro prodotto da microtoni e frequenze di chiara matrice autechriana.

Il compito di chiudere il sipario spetta, infine, ad una canzone davvero bella quanto atipica nell’ambito del registro sonoro Radiohead. Life In A Glass House è, infatti, una profumata ballad jazz-blues con fiati e orchestra stile Kansas City anni Cinquanta, interamente bagnata dalle note di un languido piano pinkfloydiano.

Tirando le somme, “Amnesiac” rafforzò la statura e il successo di una band estremamente brillante, capace come poche di giungere subito al nocciolo in tanti modi diversi.

Per celebrare i vent’anni dalla loro pubblicazione i due album sono stati adesso (giustamente) ricongiunti in una ristampa “Deluxe” efficacemente ribattezzata “Kid A Mnesia” (XL Recordings, 2021). Sebbene non rimasterizzata, l’edizione in vinile e in CD aggiunge come “bonus” un terzo disco contenente diverse outtake, qualche inedito e un paio di b-side.

Purtroppo, è proprio questo terzo disco (intitolato “Kid Amnesiae”) che lascia un po’ l’amaro in bocca e tradisce le aspettative rispetto a quanto già proposto ufficialmente dalla band con i due capolavori sopra esaminati. Il tutto si riduce a circa trentaquattro minuti di musica per un totale di dodici tracce in cui le uniche verità (semi)nascoste portano come titolo If You Say The Word e Follow Me Around.

Nella sua svenevole foggia elettroacustica il primo pare cozzare e fare esteticamente a pugni con l’aura spregiudicata ed elettronicamente sperimentale da cui discendono il repertorio e il clima di “Kid A” ed “Amnesiac”, sembrando più aderente alla stagione a cavallo fra “The Bends” e “OK Computer”. Al contrario, il secondo è uno straniante folk pseudopastorale per sola voce e chitarra acustica, già assaggiato e avvistato nel 1998 nella colonna sonora del film-documentario “Meeting People Is Easy”.

Prima e dopo questi due brani trovano poi posto Fog (Again Again Version) e Fast-Track (rispettivamente retri dei singoli Knives Out e Pyramid Song) insieme a tre spicci frammenti strumentali (tra cui Untitled V2 sembrerebbe un abbozzo di Pulk/Pull, qui presente con il testo di True Love Waits sdoganato anni più tardi in “A Moon Shaped Pool”) e altra minutaglia prescindibile come gli arrangiamenti con archi di Pyramid Strings e How To Disappear Into Strings, The Morning Bell in chiave strumentale e una Like Spinning Plates resa più patetica e terrestre dagli accordi di un piano in forte evidenza.

Insomma, un’occasione mancata e un’operazione commerciale che nulla aggiunge alla straordinaria valenza degli album gemelli separati alla nascita. Assai meglio si comportò, invece, la Parlophone nel 2009 con la ristampa in edizione limitata di “Kid A”, includendo in quel box un ottimo disco aggiuntivo di materiale dal vivo e un DVD che documentava l’esecuzione nel 2001 di The National Anthem, The Morning Bell e Idioteque davanti le telecamere americane del “Later Show” di Jools Holland.

Alla fine vien da chiedersi se i Radiohead ci abbiano davvero aperto tutte le stanze segrete delle sedute di registrazione di “Kid A” ed “Amnesiac” oppure se avanzi ancora qualcosa di speciale. Forse, così come accadde con il rilascio ufficiale della cornucopia di materiale raro e inedito dei “Minidiscs Hacked”, bisogna solo sperare che qualcun altro, nel dark web, forzi con cattive intenzioni i loro archivi personali. Chissà!

La verità è che, anche senza questi e altri possibili contorni, le canzoni di “Kid A” ed “Amnesiac” offrono da sole ancora tante soddisfazioni e spunti di riflessione.

Genere: Alternative Rock / Experimental Pop / Electronic

Musicisti:

Thom Yorke – vocals, keyboards, programming, guitar, bass
Johnny Greenwood – guitar, samples, synthesizer, ondes Martenot
Ed O’ Brien – guitar, programming
Colin Greenwood – bass, programming
Phil Selway – drums, percussion, programming
Nigel Godrich – production, engineering, mixing
The Orchestra Of St. John’s – strings

Tracklist:

Kid A
01. Everything In Its Right Place
02. Kid A
03. The National Anthem
04. How To Disappear Completely
05. Treefingers
06. Optimistic
07. In Limbo
08. Idioteque
09. Morning Bell
10. Motion Picture Soundtrack
11. Untitled (Hidden Track)

Amnesiac
01. Packt Like Sardines In A Crushd Tin Box
02. Pyramid Song
03. Pulk/Pull Revolving Doors
04. You And Whose Army?
05. I Might Be Wrong
06. Knives Out
07. Morning Bell/Amnesiac
08. Dollars And Cents
09. Hunting Bears
10. Like Spinning Plates
11. Life In A Glasshouse

Kid Amnesiae
01. Like Spinning Plates (‘Why Us?’ Version)
02. Untitled V1
03. Fog (Again Again Version)
04. If You Say The Word
05. Follow Me Around
06. Pulk/Pull (True Love Waits Version)
07. Untitled V2
08. The Morning Bell (In The Dark Version)
09. Pyramid Strings
10. Alt. Fast Track
11. Untitled V3
12. How To Disappear Into Strings