Sound Flashback Archivi - Sound Contest https://www.soundcontest.com/category/speciali/sound-flashback/ Musica e altri linguaggi Mon, 15 Jun 2020 07:45:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.1 THE FEVER TREE: febbri lisergiche d’altri tempi e altri luoghi https://www.soundcontest.com/the-fever-tree-febbri-lisergiche-daltri-tempi-e-altri-luoghi/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=the-fever-tree-febbri-lisergiche-daltri-tempi-e-altri-luoghi Tue, 24 Jul 2012 22:00:00 +0000 http://soundcontest.designet.it/speciali/the-fever-tree-febbri-lisergiche-daltri-tempi-e-altri-luoghi/ Annoverati a ragione tra i piu’ eccellenti gruppi psichedelici americani degli anni Sessanta, i Fever Tree erano inizialmente noti a Houston (vi si formarono nel ’66) come Bostwick Vine. La line-up comprendeva Dennis Keller (voce), Michael Knust (chitarra), E.E. Wolfe III (basso), John Tuttle (batteria) e Rob Landes (piano, organo, clavicembalo, flauto, arpa e violoncello). […]

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Annoverati a ragione tra i piu’ eccellenti gruppi psichedelici americani degli anni Sessanta, i Fever Tree erano inizialmente noti a Houston (vi si formarono nel ’66) come Bostwick Vine. La line-up comprendeva Dennis Keller (voce), Michael Knust (chitarra), E.E. Wolfe III (basso), John Tuttle (batteria) e Rob Landes (piano, organo, clavicembalo, flauto, arpa e violoncello). L’incredibile perizia polistrumentale di Landes fu sin dall’inizio l’epicentro dal quale s’irradio’ il poliedrico campionario d’argomenti sonori elargito dal gruppo nell’arco dei suoi quattro album. Tra questi vanno ricordati soprattutto i primi due, Fever Tree (1968) e Another Time, Another Place (1969), in cui il quintetto espone in vetrina una verve psichedelica che ha molto piu’ a che fare con opulenti paesaggi californiani che non con aride distese texane. In effetti, vuoi per il tipo di musica, vuoi per il fatto che stanzio’ per molti anni a San Francisco, la band dissimulo’ talmente bene le proprie origini da essere inglobata a lungo tra i prodotti della Bay Area.


 



Fever Tree puo’ essere certamente considerata una “tappa obbligata” per tutti i patiti dei Sixties americani. Undici composizioni dall’iridescente taglio acid-blues flagellate con estrema levita’ da timbri West Coast e romantici arrangiamenti orchestrali. Da manuale la lisergica polifonia di Where Do You Go, l’onirica sensualita’ del fortunatissimo singolo San Francisco Girls (con un assolo di chitarra che sembra richiamare Black Sheep dal primo album degli SRC di Detroit) e l’acidissimo afflato metropolitano di Ninety-Nine And One Half (condiviso anche da Man Who Paints The Pictures), mentre in suadenti ballads e nella rivisitazione di due classici come Nowadays Clancy Can’t Even Sing (Buffalo Springfield) e Day Tripper/We Can Work It Out (Beatles) prende il largo un’ottica “sinfonica” paragonabile per gusto e misura solo ai Love di Forever Changes. Ottimi interpreti e strumentisti i Fever Tree delegarono pero’ curiosamente la stesura di molti loro testi alla coppia di coniugi e produttori Scott e Vivian Holtzman, noti per aver lavorato alla colonna sonora di “Mary Poppins”. Un ulteriore marchio di fabbrica dei Fever Tree risiedeva nel suono della chitarra di Michael Knust, i cui toni rasentavano spesso lo stile della “spiritica” sei corde di Randy California, una peculiarita’ particolarmente evidente nella seconda prova sulla lunga distanza del gruppo.


 



Another Time, Another Place e’ infatti un disco leggermente piu’ duro e chitarristico, attraversato da raffinate e al tempo stesso muriatiche traiettorie strumentali che indulgono verso un blues urbano splendidamente interpretato dalla pastosa voce roca di Dennis Keller (per timbro e accento spesso assai vicina a quella ben piu’ straordinaria e inconfondibile di John Kay degli Steppenwolf). Un livello qualitativo alto e costante caratterizza le nove tracce dell’album, a incominciare dall’iniziale Man Who Paints The Pictures – Part II (riuscito compromesso stilistico tra Spirit e Doors), passando nel mezzo con Don’t Come Crying To Me Girl e la cover di Fever (poteva mancare?) fino ad arrivare al magnifico paio di coda rappresentato da Peace Of Mind e Death Is The Dancer.


 



I successivi Creation (1969) e For Sale (1970) saranno solo due discreti albums ed e’ ormai evidente che i Fever Tree hanno sparato le loro cartucce migliori nella fase iniziale della loro carriera. In Creation vale tuttavia le pena ricordare tre magnifici brani in chiave acid blues quali Woman Woman, Catcher In The Rye e Fever Glue, nonche’ la presenza come ospite di Billy Gibbons, chitarrista dei Moving Sidewalks e futuro leader dei ZZ Top.






























DISCOGRAFIA


Album



Fever Tree (LP, UNI/MCA, 1968 / LP ristampa, MCA, 1973)


Fever Tree / Another Time, Another Place (CD ristampa, See For Miles, 1993/1998)



Another Time, Another Place (LP, UNI/MCA, 1969)



Creation (LP, UNI/MCA, 1969)



For Sale (LP, Ampex, 1970)


For Sale / Creation (CD ristampa, TRC, 1994)



Live 1969 (LP, Sundazed, 2011)



San Francisco Girls (LP-CD, See For Miles, 1986) antologia

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KALEIDOSCOPE / FAIRFIELD PARLOUR: A Dive Into Yesterday https://www.soundcontest.com/kaleidoscope-fairfield-parlour-a-dive-into-yesterday/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=kaleidoscope-fairfield-parlour-a-dive-into-yesterday Fri, 27 Jun 2008 22:00:00 +0000 http://soundcontest.designet.it/speciali/kaleidoscope-fairfield-parlour-a-dive-into-yesterday/ Tranne che per i collezionisti e gli appassionati del settore, i britannici Kaleidoscope (per non parlare del segmento aggiunto Fairfield Parlour) costituiscono, tuttora, un’entita’ largamente misconosciuta ai piu’. In un arco temporale forse troppo breve qual e’ stato il triennio 1967-1969, le grigie e umide lande d’Albione si rivestirono improvvisamente dei luminosi colori apportati dal […]

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Tranne che per i collezionisti e gli appassionati del settore, i britannici Kaleidoscope (per non parlare del segmento aggiunto Fairfield Parlour) costituiscono, tuttora, un’entita’ largamente misconosciuta ai piu’. In un arco temporale forse troppo breve qual e’ stato il triennio 1967-1969, le grigie e umide lande d’Albione si rivestirono improvvisamente dei luminosi colori apportati dal movimento psichedelico. All’epoca il diaframma principale dal quale essi si sprigionavano era costituito da atomi impazziti quali i Pink Floyd di Syd Barrett, i Tomorrow di John “Twink” Adler, i Blossom Toes di Brian Godding, il Crazy World di Arthur Brown, i Creation di Eddie Philips, i John’s Children del primo Marc Bolan, i Pretty Things della stagione piu’ visionaria di Phil May, i raffinati Wimple Winch, ma anche e soprattutto i Kaleidoscope del suadente cantastorie-trovatore Peter Daltrey. Premesso che mai nome di un gruppo fu tanto idoneo nell’evocare lo strano e fantasmagorico brulichio di immagini e di suoni che popolarono i suddetto triennio, le righe che seguono spero vi aiutino a prendere interesse e confidenza con una formazione che, pur essendo stata ingiustamente relegata nell’oblio da circostanze sfortunate e ciniche logiche di mercato, ha tuttavia contribuito in maniera fondamentale alla storia del primo stadio della psichedelia inglese. Il gruppo si costituisce nel 1964, ad opera di due giovani amici d’infanzia, Eddie Pumer e Danny Bridgman. Eddie era un grande fan di Duane Eddy e sulla scorta di tale infatuazione acquisto’ una chitarra imparando da autodidatta i primi accordi e fondamenti musicali. Danny, invece, era un patito del ritmo e delle percussioni, oltre che uno sfegatato ammiratore di Sandy Denny e dei suoi Fairport Convention. Per completare la sezione ritmica Dan introdusse al basso un suo conoscente di nome Steve Clark, mentre Eddie individuo’ nello stravagante Peter Daltrey (un collega portalettere che lavorava presso la londinese ABC TV) il giusto cantante fornito, oltre che di un’ottima voce, anche di notevoli qualita’ compositive e senso lirico per via dei suoi studi di piano classico. Cosi’ amalgamato, il quartetto trovo’ subito l’accordo sul genere di musica da fare. Le prime apparizioni avvennero nei dintorni di Acton, a ovest di Londra, con la ragione sociale The Side Kicks.


 


 




Agli inizi il loro repertorio comprendeva molto rhythm ‘n’ blues, pezzi di Chuck Berry, Buddy Holly, Bo Diddley e anche covers di Beatles e Rolling Stones. Non mancavano, tuttavia, alcune composizioni originali. I Side Kicks suonarono in molti noti pubs e venues dell’area londinese, tra questi il White Hart di Acton e il Welsh Harp di Hendon, dove un paio di volte ebbero la ventura di esibirsi insieme agli High Numbers, all’epoca nome provvisorio dei futuri The Who. Con le prime sterline guadagnate nei locali, Dan Bridgman fece realizzare un acetato comprendente covers quali The House Of The Rising Sun e Mona oltre ai primi frammenti di materiale scritto dal gruppo, come And She’s Mine, Please Stay Don’t Go, What Can I Do e 18 Years Of Age, in cui Peter Daltrey rivela gia’ una vocalita’ intensa e una particolare propensione per testi di un certo spessore poetico. Dipoi la band si procuro’ un manager nella figura di David Cary e muto’ il nome in The Key. Cary, che in precedenza aveava vagliato attentamente le carte in possesso del gruppo, decise di procurare ai The Key un’audizione presso il promoter discografico della Fontana Records, Dick Leahy. Questi resta favorevolmente impressionato dal set di canzoni eseguito per l’occasione e trascinato dall’entusiasmo non si limita a mettere la band sotto contratto ma si propone finanche loro produttore, suggerendo per prima cosa di abbandonare il vecchio nome The Key in favore di uno nuovo e piu’ suggestivo. Fu cosi’ che il quartetto si accordo’ sulla successiva e definitiva ragione sociale Kaleidoscope. Forti del contratto, i Kaleidoscope si concentrano maggiormente sulle composizioni originali di Daltrey e Pumer, affinando in breve tempo un particolare stile di scrittura che abbandona del tutto i territori del rhythm ‘n’ blues e si proietta con decisione in un ambito completamente psichedelico. La prima uscita discografica ufficiale avvenne nel maggio del 1967 con il singolo Flight From Ashiya (la prima produzione in formato ridotto della Fontana Records a presentare una copertina illustrata), un esordio eccezionale, che univa all’enorme presa commerciale una matrice lisergica assai sosfisticata, resa ancor piu’ avvincente dal soggetto del testo, che aveva come protagonista il meravigliato e allucinato Capitano Simpson. Nonostante il pezzo includesse evidenti riferimenti agli stupefacenti il gruppo non era afffatto dedito e incline all’uso di allucinogeni. In pratica lo spunto del tema era unicamente figlio delle mode giovanili del periodo.


 


 


 




Di li’ a poco i Kaleidoscope si presentarono con un secondo singolo intitolato A Dream For Julie, altro riuscito saggio di pura e delicata psichdelia. Tuttavia, ne’ questo ne’ Flight From Ahiya produssero soddisfacenti risultati per quanto riguardava le classifiche (sebbene, ad insaputa del gruppo, la Fontana stampo’ e pubblico’ il primo singolo anche in Giappone, ottenendone vendite per oltre un milione di copie!). La band, che aveva firmato un contratto per la realizzazione di tre singoli, decise allora di provare a sparare subito l’ultima cartuccia ma fu spiazzata dall’imprevista offerta di Dick Leary, che propose al gruppo l’incisione di un intero long playing. L’opera, intitolata Tangerine Dream, apparve nei negozi nel novembre del 1967. Mentre all’epoca non fu accolto con entusiasmo dal pubblico, in seguito l’album comincio’ lentamente ad esser rivalutato come un classico degno di tener testa al pinkfloydiano Piper At The Gates Of Dawn. La front sleeve di Tangerine Dream raffigura i componenti del gruppo avvolti in kaftani riccamente ornati di gemme e monili mentre posano ieraticamente su uno sfondo di carta metallizzata. Sul retro e’ invece riportato un passo di prosa di Daltrey, autore di tutti i testi, farcito di quella sensibilita’ hippy che oggi farebbe sicuramente sorridere. La musica, invece, conserva il raro dono dell’atemporalita’. Splendide sonorita’ equipaggiate con testi intriganti, eleganti accompagnamenti e inventivi arrangiamenti. Per quanto riguardava l’organizzazione strumentale, Peter Daltrey s’incaricava di aggiungere, oltre alla voce solista, piano, clavicembalo, organo e mellotron; Eddie Pumer (l’altra principale anima melodica della band) concorreva come chitarrista e tastierista; basso e flauto erano invece a cura di Steve Clark, mentre Dan Bridgman provvedeva alle percussioni, compresi timpani a pedali, tubular bells e bongos accanto alla tradizionale batteria. I soggetti delle canzoni sembravano saccheggiati da antichi cassettoni colmi di ricordi d’infanzia, folklore, avventure per ragazzi e pura immaginazione. Il tutto suscitava un mondo magico e fiabesco, popolato da personaggi appellati con strani nomi, come quelli che fanno capolino in titoli quali The Murder Of Lewis Tollani, Mr. Small, The Watch Repair Man o Dear Nellie Goodrich. Altrove, tracce come Flight From Ashiya, la bellissima Dive Into Yesterday o l’eponima Kaleidoscope si susseguono in un perfetto equilibrio dinamico, fatto di gusto barocco, abili tocchi di chitarra, studiate movenze orchestrali e psichedelia progressiva di vago sapore orientale.


 


 




Dopo l’album i Kaleidoscope pubblicano nel 1968 un singolo dal titolo Jenny Artichoke, un esperimento piu’ pop e diretto che fu trasmesso incessantemente dalle emittenti radio dell’epoca. Intrapresero poi un tour europeo non disdegnando apparizioni promozionali quali, ad esempio, quella alla televisione di stato francese in compagnia di Serge Gainsburg o insieme a Country Joe And The Fish in Olanda. Sul palco l’immagine della band era molto piu’ dura e aggressiva rispetto a quella trasmessa dai dischi. Impiegavano una vasta gamma di strumenti ed effetti, compreso un frequente uso del feedback e massicce dosi di sitar doviziosamente amplificato. Anche visivamente il quartetto rendeva le sue apparizioni un evento. Bombe fumogene, bacchette scintillanti e capsule fiammeggianti servivano ad illustrare determinati passaggi del repertorio mentre sulla platea erano riversati petali di fiori in gran quantita’. Inoltre alcuni brani poetici venivano letti da splendide ragazze vestite con tuniche dalle frange variopinte. Nel 1969 esce il loro secondo album Faintly Blowing, un disco a dir poco sbalorditivo, che presenta un’esecuzione ancor piu’ raffinata, tesa a valorizzare le sempre piu’ favolose e delicate immagini poetiche frutto del genio di Daltrey. Molto intrigante e’ la title-track dominata dal suono della chitarra incantatrice di Eddie Pumer, un omaggio quasi pagano ai quattro elementi fodamentali acqua, aria, terra e fuoco. Echi mistici appaiono anche nell’energica e, al tempo stesso, dolcissima Love Song For Annie. Altrove l’ascoltatore e’ disarmato dall’onirica tranquillita’ trasmessa da stupende ballate quali Poem, Opinion e la brevissima The Feathered Tiger. Altri momenti felici e ispirati: Snap Dragon, A Story From Tom Blitz (pezzo che ricorda alcune cose del Cat Stevens piu’ acido) e If You So Wish (squisito esempio di pop-folk sinfonico). Sul secondo lato del disco spiccano, invece, due composizioni su tutte. La prima, The Black Fjord, mescola storia e mistero in un racconto epico che parla di imbarcazioni funerarie vichinghe in fiamme, tra visioni tolkieniane di cavalieri e magici anelli. La seconda, Music, e’ una singolare esplosione di vigore elettrico piuttosto aggressivo, espresso tramite chitarre fluttuanti e sbarramenti di percussioni che concludono in modo caotico una crepitante cacofonia di tamburi, feedback e cori celestiali, sopra ai quali Daltrey recita un testo provocatorio.


 


 




Purtroppo in concerto i Kaleidoscope non eseguivano molti di questi brani, sicuramente per l’impossibilita’ di riprodurre con pochi strumenti le particolari atmosfere fornite dagli ottoni e dai violoncelli ai quali i musicisti facevano spesso ricorso nelle registrazioni in studio. La band ha sempre affermato di avere una vasta quantita’ di materiale non pubblicato e gia’ nel 1967, nel corso di un’intervista radiofonica, dischiaro’ di aver definito un set di almeno 150 canzoni! Un’adeguata porzione delle loro proposte dal vivo fu certamente tratta da quella riserva di canzoni inedite. Infatti la coppia di singoli finali, pubblicati nel 1969, presenta dei lati A mai apparsi su alcun album. Do It Again For Jeffrey si avvicina molto alla formula “pop” di Jenny Artichoke. Lo stesso dicasi per Balloon, tema fresco, vivace ed elegante che dispiega uno stile e un talento molto al di la’ del classico motivetto “carino” costruito per le classifiche. Gia’, le classifiche, un luogo tabu’ che ne’ questi ne’ i precedenti singoli riuscirono a penetrare e scalare. Purtroppo l’estetica “popedelica” dei Kaleidoscope era piuttosto sofisticata ed intellettualmente ricercata, peculiarita’ che a molti sembrarono gia’ obsolete all’alba di una nuova decade in cui la stragrande maggioranza dei gruppi britannici cavalcava l’ormai piu’ gettonata e trasgressiva scena del beat-mod o si addestrava nell’affollata palestra del progressive. In tale frangente il quartetto abbandono’, quindi, a malincuore la ragione sociale Kaleidoscope ribattezzandosi Fairfield Parlour. David Symonds, dj che lavorava in precedenza presso la BBC, si offri’ per essere il loro nuovo manager. Quest’uomo nutriva una sincera ammirazione per l’arte musicale di Daltrey e Pumer e a dire il vero non perse alcuna occasione per gestire e curare al meglio gli interessi dei Fairfield Parlour. La sua prima mossa fu quella di andare dai tipi della Fontana a rescindere il vecchio contratto. Poco dopo ne stipulo’ un altro, piu’ vantaggioso, con la neonata Vertigo Records, etichetta sussisiaria della Philips che intendeva sfruttare a piene mani il promettente filone dell’hard progressive. Il contratto prevedeva che la casa discografica avesse i diritti dei masters mentre quelli d’autore restassero esclusivamente in mano al gruppo. Symonds investi’ molto danaro per fornire alla band una nuova strumentazione e un furgone capiente per spostarsi autonomamente in tour. La prima incisione di questo nuovo corso non e’ pero’ attribuibile ai Fairfield Parlour, bensi’ ai I Luv Wight, un nome improvvisato con il quale il quartetto forni’ al festival di Wight del 1970 la sigla ufficiale della manifestazione. Il singolo usci’ su Philips con il titolo Let The World Wash In, una bella ballata accompagnata sul retro dalla strumentale Medieval Masquerade. Quel progetto fece anche ottenere ai Farfield Parlour il set di apertura del festival medesimo. Al Clarendon Hotel dell’isola, i Fairfield effettuarono e registrarono persino delle session per un album dal vivo, assistiti da un certo Herbie Snowball, il quale prese con se’ il nastro e poi si dileguo’ misteriosamente nel nulla.


 


 




Un’altra tappa importante, nella breve carriera dei Fairfield Parlour, fu l’apparizione, nel gennaio del 1971, ad un prestigioso concerto presso la Royal Albert Hall di Londra. Purtroppo l’evento non sorti’ l’effetto sperato e alla fine si rivelo’ un’autentica debacle. La band era di supporto ai Pentangle e nel pomeriggio aveva sostenuto un lungo sound-check per mettere a punto i suoni e i livelli di monitor e amplificazione. Le prove furono piu’ che soddisfacenti e il gruppo si allonto’ rassicurato per ristorarsi prima dell’esibizione. Tornato sul posto e iniziato il set si accorse fin dalle prime battute che qualcosa non andava. Infatti molte spine di collegamento erano state traslocate in prese errate, e di conseguenza anche il livelli e volumi dei diffusori risultarono fortemente alterati. Per colpa di qualche anonimo sabotatore i Fairfield Parlour furono, quella sera, protagonisti e vittime di uno degli episodi piu’ infelici della loro carriera. Non meno sconcertante fu l’esperinza vissuta pochi mesi dopo al Mothers Club di Birmingham. I Fairfield dovevano condividere il palco insieme ai Led Zeppelin e ai Chicken Shack. Prima di terminare il loro set il quartetto invito’ a sostenere un’improvvisata jam-session John Bonham, Robert Plant e Stan Webb, i quali ci diedero dentro con tale foga da far saltare in aria quasi l’intera amplificazione dei Parlour. Un anno prima, tuttavia, la band ebbe la commissione di scrivere il tema portante del film “Eyewitness”, diretto da John Hough, pellicola che includeva, tra l’altro, anche musiche dei Vand Der Graaf Generator. In origine Eyewitness era programmato per diventare il singolo d’esordio dei Fairfield Parlour ma in seguito la scelta cadde su Bourdeaux Rose’, licenziato dalla Vertigo nell’aprile del 1970. il brano fu presentato con grande successo a “Top Of The Pos” ma come al solito la cosa non ebbe alcuna ripercussione sulle classifiche. Il gruppo recrimino’ sulla scarsa distribuzione e promozione effettuata dalla Vertigo, la quale pur essendo un’etichetta di un certo peso utilizzava ancora i sistemi di marketing imposti dalle grandi consorelle Phonogram, Fontana e Philips, impegnate ad investire budget consistenti su sonorita’ piu’ leggere e meno impegnative. Successivamente i Fairfield registrarono un EP di quattro brani pubblicato alla fine di giugno del 1970. Tra questi spiccano, per la loro delicata vena malinconica, Song For You e Caraminda mentre nel pezzo d’apertura, Just Another Day, c’e’ da rilevare la partecipazione di Elton John al piano e di Graeme Edge (Moody Blues) alla batteria, sostituto di Dan Bridgman allora degente in ospedale per via di alcuni problemi contratti alla schiena.


 


 




Finalmente, nel mese di agosto del medesimo anno, esce l’album From Home To Home, un disco capolavoro che insieme alla ripresa di alcuni pezzi risalenti al periodo Kaleidoscope presenta nuove composizioni sprigionanti un intenso incanto “popular-folk”. La copertina principale raffigura un anziano intento nella lettura, comodamente rifugiato nello stanzino di una mansarda tipicamente anglosassone. Sul retro e’ la band al completo che nel mesedimo interno prende il posto del vecchio. Aprendo il gatefold si puo’ anche ammirare lo scenario crepuscolare e brumoso di una campagna inglese, che palesa in un angolo le sagome sfumate dei quattro musicisti. Questi motivi iconografici ben inquadrano il contenuto del disco, totalmente sospeso in un’incommesunrabile, triste grandiosita’. Apre Aries con una nota riflessiva semi-autobiografica seguita da In My Box, cansone che restituisce in poche battute un vago sapore “barrettiano”. Ogni brano risulta curato al millimetro, ne sono prova gli arrangiamenti sublimi di The Glorious House Of Arthur, By Your Bedside, Emily, Soldier Of The Flesh, dove determinante e’ l’apporto interpretativo di Daltrey, una vocalita’ d’altri tempi, oggi difficilmente rintracciabile. Al messaggio poetico di Monkey si contrappone l’appassionante denuncia contro la guerra trasmesssa da Drummer Boy Of Shiloh, mentre il picco artistico dell’intero lavoro e’ sicurament Sunny Side Circus, di cui ci si puo’ lamentare solo per la brevita’ dell’esecuzione. Rispetto ai precedenti lavori firmati Kaleidoscope, From Home To Home e’ forse un pò troppo barocco nel perfezionismo che emana; eppure quel che ne scaturisce ha ancora un forte senso di liberta’ dagli schemi, se immaginazione significa qui sfiorare simboli e temi di una disarmante quotidianeita’, alla ricerca (non facile) di un chiaro luogo mentale.


 


 




 

Il successivo progetto dei Fairfield Parlour era molto ambizioso: un doppio album corredato da testi in prosa e interamente dedicato alla figura di Marylin Monroe. Registrato ai Morgan Studios di Londra, il lavoro fu titolato White Faced Lady, ma dopo un vago interesse da parte dei tipi della RCA l’opera venne rifiutata ovunque. Demoralizzati, i Fairfield Parlour si sciolsero in perfetta amicizia. Quanche anno dopo si ricostituirono per tenere un concerto in Germania e registrare due nuovi pezzi, All Together Now dei Beatles e Stay For Tonight, apparso solo nel 1976 come B-Side di una riedizione del singolo Bourdeaux Rose’. Questa pubblicazione avvenne tramite la costituzione di un’etichetta interamente autogestita dai quattro, la Kaleidoscope Records. Infatti il gruppo non voleva rinunciare alla stampa di White Faced Lady e nonostante negli anni Ottanta molte labels si fossero offerte per ristampare buona parte del loro materiale, la band penso’ bene di compiere l’operazione personalmente. Finalmente il leggendario set di White Faced Lady vide la luce nel 1991, intestato non ai Fairfield parlour bensi’ ai Kaleidoscope. Sentendo il disco s’intuisce immediatamente il parallelismo che intercorre tra le canzoni e la romanzesca storia di Angel, il testo in prosa di Daltrey stampato nelle facciate interne dell’album. Nel quadro musicale creato dal gruppo va sottolineato il dolce “stilnovismo” delle armonie e dei testi, l’equilibrio misurato delle orchestrazioni, nonche’ la singolare fantasia che traspare nel collegamento dei temi a sfondo biografico. Per farla breve, l’esperimento sembra perfettamente riuscito e per la sua originalita’ e letterarieta’, l’album puo’ essere tranquillamente accostato a quell’altro grandioso concept che e’ Selling England By The Pound dei Genesis. Impressionanti appaiono canzoni-riflessioni quali Broken Mirrors, Picture With Conversation, Coronation Of The Fledgling e Burning Bright. Si resta piacevolmente sorpresi dagli scrosci di liquida musicalita’ che sgorgano con naturalezza dalle note di Overture, come pure avvincente e’ il gioco di percussioni condotto in Standing. La band torna a proporre superba psichedelia in Diary Song: The Indian Head e Song From Jon, mentre le fughe pop e acustiche rispettivamente delineate in Long Way Down e The Locket ci fanno calare negli antri segreti dei sensi, permettendoci di accarezzare brezze di puro romanticismo. Chiude il tutto Epitaph, che suggella nel suono degli archi e degli ottoni il messaggio di bellezza, malinconia, gioia e amore lasciatoci dai Kaleidoscope nel loro splendido testamento musicale.




























DISCOGRAFIA





Tangerine Dream (LP, Fontana, 1967 – rist. CD, Repertoire, 1998 con 6 bonus tracks, inclusi i singoli “Flight From Ashiya”, “Dream For Julie” e “Jenny Artichoke”   )



Faintly Blowing (LP, Fontana, 1969 – rist. CD, Repertoire, 1998 con 6 bonus tracks, inclusi i singoli “Do It Again For Jeffrey”, “Balloon” e “Let The World Wash In” dei I Luv Wight)



From Home To Home [FAIRFIELD PARLOUR] (LP, Vertigo, 1970 – rist. CD, Repertoire, 1991 con 8 bonus tracks, inclusi il singolo “Bourdeaux Rose'”, e l’EP “Just Another Day”, )



White Faced Lady (2LP, CD Kaleidoscope, 1991)



Please Listen To The Pictures – BBC Radio Sessions[KALEIDOSCOPE / FAIRFIELD PARLOUR] (CD, Circle, 2004, comprende 22 tracce radiofoniche dal 1967 al 1971)


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THE CHARLATANS: strani argonauti salpati dalla baia di San Francisco https://www.soundcontest.com/the-charlatans-strani-argonauti-salpati-dalla-baia-di-san-francisco/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=the-charlatans-strani-argonauti-salpati-dalla-baia-di-san-francisco Wed, 18 Jun 2008 22:00:00 +0000 http://soundcontest.designet.it/speciali/the-charlatans-strani-argonauti-salpati-dalla-baia-di-san-francisco/ Pionieri inconsapevoli di un’era musicale assolutamente fantastica ed irripetibile, i Charlatans costituirono di fatto il punto post quem ebbe inizio l’intero fenomeno del cosiddetto San Francisco Sound. Quest’ultima sigla, infatti, racchiude in se’ i tratti fondamentali che negli anni Sessanta assunsero il folk-rock della West Coast e la musica psichedelica/acid-rock californiana. Non staremo qui a […]

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Pionieri inconsapevoli di un’era musicale assolutamente fantastica ed irripetibile, i Charlatans costituirono di fatto il punto post quem ebbe inizio l’intero fenomeno del cosiddetto San Francisco Sound. Quest’ultima sigla, infatti, racchiude in se’ i tratti fondamentali che negli anni Sessanta assunsero il folk-rock della West Coast e la musica psichedelica/acid-rock californiana. Non staremo qui a riesumare, in maniera prolissa, un passato attualmente ancora imprenscindibile, caratterizzato da grandi rivoluzioni espressive e sociali, liberta’ nei costumi, personaggi culturalmente bizzarri e iconoclasti, contornati da vesti multicolori e fragranti nubi allucinogene. Conviene solo ricordare che nello stesso periodo in cui valenti e gloriose formazioni muovevano i primi passi (leggi Great Society, Jefferson Airplane, Big Brother And The Holding Company, Warlocks, Grateful Dead, Quicksilver Messenger Service, Country Joe And The Fish, Spirit e via dicendo) i Charlatans potevano gia’ considerarsi artefici di uno stile tanto unico quanto coinvolgente, che di li’ a poco sarebbe stato preso come modello in tutta la Bay Area. Ma lasciamo i preamboli e veniamo ai dettagli. La band prende forma nel settembre del 1964, per iniziativa di George Hunter, un giovanotto che nel tentativo di emulare le gesta dei Beatles era fortemente deciso a farsi cantante. Al progetto sono invitati a prender parte alcuni suoi vecchi amici di scuola: Richard Olsen (basso), Mike Wilhelm (chitarra) e Sam Lind (batteria), quest’ultimo poi rimpiazzato dopo pochissimo tempo da Dan Hicks, un chitarrista che si vide costretto a passare dietro i tamburi e che tuttavia svolse la sua nuova mansione in modo assai egregio. Per far quadrare il tutto Hunter decide inoltre di allargare l’invito a tal Mike Ferguson, pianista dilettante ma soprattutto personaggio di spicco di una nuova ma ancora ristretta scena underground di San Francisco. Ferguson era, infatti, gestore di un rinomato head shop della citta’, in pratica un negozio d’antiquariato e rigatteria assai frequentato dalla gioventu’ del posto, che li’ poteva trovare per pochi spiccioli mercanzia varia, abiti stravaganti, ma piu’ d’ogni altra cosa, un vasto assortimento di articoli per fumatori.




La scelta si rivelo’ piu’ azzeccata che mai, visto che poi fu specialmente Ferguson ad organizzare e gestire l’immagine del gruppo, grazie al suo spiccato senso creativo ed imprenditoriale. La formazione si riuniva per le prime prove in un appartamento al numero 1090 di Page Street, nel leggendario quartiere di Haight Ashbury. Il locale sarebbe poi divenuto uno dei ritrovi storici della scena musicale californiana, inizialmente acquistato da Rod Albin e poi passato nelle mani di suo fratello maggiore, Peter Albin, cantante e bassista dei Big Brother, ossia la band che ebbe il merito di lanciare e accompagnare la straordinaria voce di Janis Joplin. Agli inizi i Charlatans si cimentavano con numeri di Chuck Berry e molti standard Rhythm And Blues quali “Got My Mojo Working”, “I Cant Quit You Baby” e “Spoonful”, passando via via a prender confidenza con quel repertorio folk-rock che in seguito costituira’ il loro inconfondibile marchio di fabbrica. Tuttavia destino volle che i Charlatans si affermassero inizialmente fuori della California, ottenendo un ingaggio di un paio di mesi al Red Dog Saloon di Virginia City, nel vicino stato del Nevada. Nata e sviluppatasi come fiorente e prospera sede d’industrie minerarie dedite all’estrazione di argento e oro, Virginia City soffri’, nei primi anni del Novecento, un vertiginoso calo demografico per la scarsita’ dell’occupazione e la chiusura di molte compagnie minerarie. Poi, contro ogni previsione, ebbe una netta ripresa agli inizi degli anni Sessanta, diventando inaspettatamente meta obbligata di frotte di turisti che li’ si recavano per filmare e fotografare i resti e le testimonianze storiche dei primi coloni d’America e delle centinaia di avventurieri contagiati dalla febbre dell’oro. In origine il manager del Red Dog Saloon era dell’idea di metter sotto contratto i Byrds di Roger McGuinn, ma dato che questi avevano subito trovato fama e popolarita’ grazie al singolo “Mr. Tambourine Man”, la sua scelta alternativa premio’ il fresco suono dei Charlatans. Per pubblicizzare il primo concerto del gruppo al Red Dog Saloon, Mike Ferguson concepi’ e disegno’ cosi’ quello che in genere si suppone sia stato il primo poster e manifesto psichedelico della storia del rock. Combinato in abiti degni dei piu’ caratteristici personaggi dipinti da Jack London nei suoi romanzi sul mito della prima febbre dell’oro, il quintetto seppe subito catalizzare l’attenzione generale dei sempre piu’ frequenti e numerosi avventori del locale. Il loro inusuale e stravolto folk-rock-blues divenne in breve una perfetta colonna sonora per i primi viaggiatori imbottiti d’acido che li’ si davano appuntamento e bivaccavano (tra questi anche il guru Ken Kesey) giungendo da Reno, San Francisco, Berkeley, Seattle e Los Angeles. In seguito i primi seri problemi di droga e l’effetto di disturbo provocato dal loro Psychedelic Rock ‘n’ Roll Show (frutto delle intuizioni sperimentali di Hunter e del tecnico delle luci Bill Ham) portano i componenti del gruppo a decidere per un immediato ritorno nella citta’ d’origine. Nell’andarsene i Charlatans agganciano al loro organico anche Lynne Hughes, cameriera del Red Dog promossa ora nuova voce femminile accanto al vocalist George Hunter. Nel settembre del 1965 i Charlatans provano senza fortuna un’audizione discografica con la Autumn Records e nel gennaio del 1966 esordiscono dal vivo al Family Dog di San Francisco. Poco dopo, tra l’aprile e il luglio dello stesso anno, il gruppo capitera’ spesso sul palco del leggendario Fillmore Auditorium, gestito dapprima da Chet Helmes e poi dal famosissimo impresario e produttore rock Bill Graham. È in questo periodo che i concerti del gruppo s’incrociano spesso con quelli dei vari Jefferson Airplane, Big Brother, Mystery Trend ed i Fugs di New York, accompagnati dai loro amici poeti Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti.











Il successo dei Charlatans cresce a dismisura e parallelamente anche l’interesse di numerose case discografiche. Dopo molte proposte la formazione stipula un contratto con la Kama Sutra, etichetta che godeva di una certa rinomanza per esser stata trampolino di lancio dei newyorkesi Lovin’ Spoonful. Entrati in studio per apprestare il materiale del loro primo album, i Charlatans ne escono con un master di sole nove tracce. Tra queste vi e’ la stupefacente cover di un originale della grande cantautrice pellerossa Buffy Sainte Marie intitolato “Codine”. I Charlatans vi facevano molto affidamento e volevano che diventasse il singolo da mettere sul mercato per promuovere l’album, ma proprio il brano in questione fu causa di rottura tra il gruppo e la casa discografica. Il testo della canzone metteva chiaramente in ballo la droga (la codeina e’ un alcaloide dell’oppio che pero’ non reca assuefazione) e poiche’ il 6 ottobre di quell’anno (il 1966) lo stato della California aveva bandito per legge l’uso e la detenzione di LSD, i tipi della Kama Sutra non vollero rischiare piu’ di tanto: scaricarono la band e bloccarono la stampa dell’album. Il fatto paradossale e’ che pur avendo come tema la droga, in maniera ambigua “Codine” ne condannava l’uso piuttosto che incentivarlo. La rescissione del contratto causo’ inevitabilmente forti ripercussioni negative all’interno del gruppo. Mike Ferguson ritorno’ al suo negozio d’antiquariato recuperando occasionalmente l’impegno musicale con i Tongue And Groove. A sostituirlo fu Patrick Bogerty mentre Dan Hicks abbandono’ le bacchette per concentrarsi sulla chitarra ritmica. Il nuovo batterista giunse nella persona di Terry Wilson, che in precedenza aveva militato in un’ignota formazione denominata Orkustra. Numerosi concerti, buoni o pessimi a seconda dell’umore dei musicisti, riportano la band a contatto con il pubblico, ma la convinzione e’ poca, ragion per cui Hicks, Bogerty e Hunter tirano definitivamente i remi in barca abbandonando il progetto. Dan Hicks fonda gli Hot Licks mentre George Hunter apre la prestigiosa Globe Propaganda, agenzia di grafica pubblicitaria famosa per aver dato alla storia dell’arte rock le copertine pittoriche degli album Happy Trails e It’s A Beautiful Day. I tre rimasti dei Charlatans (Olsen, Wilhelm e Wilson) decidono comunque di continuare l’avventura reclutando l’organista Darryl De Vore. Nell’agosto del 1968 il gruppo suono’ al Fillmore West per presentare l’uscita del primo album ufficiale The Charlatans, un agognato traguardo raggiunto mediante un nuovo contratto siglato con i tipi della Philips. L’ultima apparizione in pubblico dei Charlatans risale invece al 1 giugno 1969, sempre presso il Fillmore West di San Francisco, dopodiche’ il gruppo cessa definitivamente di esistere. Tuttavia Richard Olsen e Mike Wilhelm continuarono a esibirsi spesso dal vivo nell’area di San Fancisco, avendo formato un nuovo gruppo chiamato Loose Gravel. Poi Wilhelm parti’ alla volta dell’Inghilterra, dove nel 1979 licenzio’ un album solista omonimo per conto della Zig Zag Records. Successivante torno’ in patria per sperimentare nuove elettrizzanti emozioni tra le fila dei Flamin’ Groovies di Cyril Jordan.



Il caso Charlatans, che sembrava ormai del tutto archiviato, si riapre invece nel 1979 grazie all’intervento lungimirante della Groucho Records (mitica label specializzata in ristampe tarocche su vinile) che pubblica, per la gioia degli appassionati e dei collezionisti irriducibili, alcune copie numerate del primo album censurato e rifiutato a suo tempo dalla Kama Sutra. Alabama Bound e’ un autentico scrigno contenente perle preziose quali la chiacchierata “Codine”, suonata con piglio acido e qualche richiamo agli Animals (ancor migliore e’ la seconda versione denominata “Codine Blues”), il pezzo che intitola la raccolta, ossia un traditional riarrangiato con squisito gusto di frontiera, la delicata ballad “I Saw Her” le armonie country-roots di “Side Track” e “I’d Rather Be The Devil”, nelle qualli e’ possibile ascoltare Lynne Hughes in veste solista. Per il resto i Charlatans mostrano la loro dimestichezza nel condire con nuove spezie l’abusato repertorio Rhythm And Blues grazie a numeri riusciti come “The Shadow Knows”, “32-20”, “Baby Won’t You Tell Me”, “Long Come A Viper” e soprattutto “By Cook Or By Crook”. Un mirabile album-manifesto di folk-rock e rurale essenza lisergica e’ invece The Charlatans, uscito come un drop out in pieno clima psichedelico ad opera di quattro musicisti gia’ sufficientemente smaliziati da firmare personalmente ben nove degli undici pezzi presenti nella raccolta. Inspiegabilmente la maggior parte dei critici e degli esperti pone questo lavoro su un gradino piu’ basso rispetto ad Alabama Bound, mentre per il sottoscritto e’ proprio con quest’opera che i Charlatans danno conferma non solo della loro brillante evoluzione creativa, ma anche del raggiungimento di uno stile (tutto giocato sugli effetti della chitarra) che in seguito sara’ il punto di forza (dilatato ed esaperato) dei Grateful Dead di Jerry Garcia. Nel complesso il disco e’ anche molto piacevole, ben costruito su un magico equilibrio tra folk (lo squisito riarrangiamento di “Folsom Prison Blues” di Johnny Cash e la ripresa del cavallo di battaglia “Alabama Bound”), rock (appena inzuppato di country quello di “Wabash Cannonball”), psichedelia (sia energica che romantica, come nei brani “Easy When I’m Dead”, “Ain’t Got The Time”, “Time Get Straight” e Doubtful Waltz”) e sorprendenti costruzioni pop-blues, come nel caso di “The Blues Ain’t Nothin”, When I Go Sailin’ By” oppure “When The Movies Are Over” (dove troviamo una strizzatina d’occhio alla popedelia progressiva dei britannici Move e Tomorrow). L’intero materiale inciso dal gruppo (versioni in studio, demo, estratti dal vivo, inediti) e’ ancora facilmente rinvenibile su CD e comunque questo e’ quanto conta sapere dei Charlatans, a loro modo protagonisti di un capitolo di storia del rock che con un grado di determinazione in piu’ e qualche pastiglia di LSD in meno avrebbero potuto rendere addirittura memorabile.

























DISCOGRAFIA





The Charlatans (LP, Philips,1969)



Alabama Bound (LP, Eva,1983 – contiene le registrazioni Kama Sutra del 1966 ed un brano inedito dal vivo del 1969)



First Album / Alabama Bound (CD, Eva,1992 – ristampa dei primi due album)



The Amazing Charlatans (CD, Big Beat,1996 – antologia con demo e quattro brani inediti)


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