Hot Stuff And Relics Archivi - Sound Contest https://www.soundcontest.com/category/speciali/hot-stuff-and-relics/ Musica e altri linguaggi Sat, 18 Feb 2023 04:41:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.1 SPIRITUALIZED | Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space https://www.soundcontest.com/spiritualized-ladies-and-gentlemen-we-are-floating-in-space/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=spiritualized-ladies-and-gentlemen-we-are-floating-in-space Sun, 01 May 2022 14:03:20 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=55022 Ladies and gentlemen we are floating in space by Spiritualized Ebbene sì. La classe non è acqua e quanti ne possiedono anche solo una parte nelle piastrine del DNA prima o poi la mettono in mostra, con buona pace di tutti i detrattori. Dopo aver vissuto per parecchi anni all’ombra dell’egocentrismo di Pete “Sonic Boom” […]

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SPIRITUALIZED
Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space
Dedicated Records
1997

Ebbene sì. La classe non è acqua e quanti ne possiedono anche solo una parte nelle piastrine del DNA prima o poi la mettono in mostra, con buona pace di tutti i detrattori. Dopo aver vissuto per parecchi anni all’ombra dell’egocentrismo di Pete “Sonic Boom” Kember, a partire dal 1990 la statura artistica di Jason “Spaceman” Pierce si erge senza più ostacoli nello splendido progetto personale Spiritualized.

 

Diventato a sua volta maniaco dittatore, l’ex Spacemen 3 sembra avere dalla sua una vena creativa estremamente prolifica (la discografia degli Spiritualized batte in quantità e qualità quelle di Spectrum, Darkside e Alpha Stone messe insieme), a dispetto di un patologico perfezionismo che lo porta a rielaborare e limare fino al parossismo ogni pezzo registrato in studio.

Alle originali intuizioni dei “tre astronauti” Pierce ha saputo aggiungere tappezzerie psicosoniche colorate di liquida psichedelia elettro-space-gospel, aggiornando, con tanto altro ancora , quelle spigolose trame stoogesiane ed elevetorsiane che in tempi non sospetti avevano dato nerbo all’esplosione dell’ala più ruvida del brit-rock primi anni Novanta.

Negli Spiritualized v’è comunque un innegabile rimando al verbo velvettiano, una mal celata devozione alla lezione di Sun Ra, all’acid blues delle migliori formazioni Sixties unito agli sperimentalismi di gente come Suicide, Silver Apples e Can.

Al Nostro bastarono però appena due passi (“Lazer Guided Melodies” del 1992 e “Pure Phase” del 1995) per metter finalmente piede in quell’Eden sonico che è, ancor oggi, “Ladies And Gentlemen We Are Floating In The Space”. Pubblicato nel giugno del 1997, l’album prende titolo da un passaggio de “Il mondo di Sofia”, romanzo filosofico e bestseller dello scrittore norvegese Jostein Gaarder.

Per confezionarlo Pierce impiegò cinque studi di registrazione diversi e una cinquantina fra musicisti e ospiti: nella fattispecie il Balanescu Quartet (già presente in “Pure Phase”), il London Community Gospel Choir e Dr. John (per il cui contributo Pierce si spostò appositamente negli Stati Uniti).

Il risultato di tanta manovalanza è condensato in dodici fantastiche composizioni per un totale di settanta strabilianti minuti di musica, combattuti tra dissonanti armonizzazioni pop e slanci propulsivi sfarinati in un surreale mantra lisergico, chiassoso e delicato al tempo stesso.

L’iniziale title track accoglie subito l’ascoltatore con modi garbati e gentili, sfoderando tra voci e tastiere, una smerigliata melodia dal sapore quasi canterburiano. C’è anche da sottolineare che il brano divenne subito un caso sia per l’intro vocale (quello dell’ ex tastierista Kate Radley, partner professionale e sentimentale di Pierce che due anni prima dell’uscita del disco era convolata a nozze segrete con Richard Ashcroft dei Verve ), sia per il refrain inglobato di I Can’t Help Falling In Love di Elvis Presley, riguardo al quale gli eredi della star fecero causa e ne vietarono l’uso fino al 2009.

La successiva Come Together è animata da accordi di chitarra vigorosi e da una sezione di fiati che regala al tutto una circolare solennità. C’è poi un incredibile trittico, composto da I Think I’m In Love, All Of My Thoughts ed Electricity, nel quale convivono, con controllata potenza espressiva, combinazioni rhythm ‘n’ blues, tradizione soul, graffianti lineee stoogesiane e sprazzi di acida psichedelia texana. A questo gruppo si contrappongono pezzi più vellutati e allucinogeni (Home Of The Brave e Stay With Me) mentre The Individual e No God Only Religion scorrono su stranianti scenografie di rumorismo sonico e vertiginose orchestrazioni space-jazz.

Nella parte finale della raccolta la musica si sposta su coordinate esteticamente più raffinate (il quartetto d’archi che interviene in Broken Heart) e passionali (il gospel-soul di Cool Waves). Ma tutto ciò è ancora nulla in confronto all’orgia di note e idee che scaturiscono dai diciassette minuti di Cop Shoot Cop, un visionario tornado psichedelico di feedback e decibel mitigato, in momenti diversi, dal canto drogato di Pierce e dal piano in chiave night club di Dr. John.

Dopo tanti anni “Ladies And Gentlemen” resta ancora l’apice artistico degli Spiritualized e un “classico” tra i più memorabili e seminali degli anni Novanta. Un’opera epica e affascinante, eternata dalla luce abbagliante dei suoi dodici inscalfibili diamanti.

Voto: 10/10
Genere: Space Rock / Psych-Pop / Chamber / Jazz-Rock / Gospel

Musicisti:

Jason Pierce – vocals, guitars, hammered dulcimer, piano, autoharp
Kate Radley – organ, piano, synthesizer, backing vocals
Sean Cook – bass guitar, harmonica
Damon Reece – drums, percussion, timbales, bells, timpani
John Coxon – guitars, melodica, synthesizer
Ed Coxon – violin
B.J. Cole – pedal steel guitar
Angel Corpus Christi – accordion
Andy Davis – organ
Dr. John – piano, backing vocals #11 (Cop Shoot Cop…)
Simon Clarke – flute, baritone saxophone
Tim Sanders – tenor saxophone
Terry Edwards – tenor saxophone
Roddy Lorimer – trumpet, flugelhorn
Neil Sidwell – trombone
Tim Jones – French horn
The Balanescu Quartet
London Community Gospel Choir

Tracklist:

01. Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space (I Can’t Help Falling In Love)
02. Come Together
03. I Think I’m In Love
04. All Of My Thoughts
05. Stay With Me
06. Electricity
07. Home Of The Brave
08. The Individual
09. Broken Heart
10. No God Only Religion
11. Cool Waves
12. Cop Shoot Cop

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RADIOHEAD | Kid A Mnesia https://www.soundcontest.com/radiohead-kid-a-mnesia/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=radiohead-kid-a-mnesia Sat, 20 Nov 2021 13:12:23 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=52668 KID A MNESIA by RadioheadLa logica del pop muta in proporzione al sentimento estetico di un’epoca. All’alba del terzo millennio, in cui synth, laptop e ProTools hanno definitivamente rubato il posto al classico armamentario di chitarra, basso e batteria, i Radiohead smettono i panni della classica guitar band e comprano un mucchio di attrezzatura digitale […]

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RADIOHEAD
Kid A Mnesia
XL Recordings
2021

La logica del pop muta in proporzione al sentimento estetico di un’epoca. All’alba del terzo millennio, in cui synth, laptop e ProTools hanno definitivamente rubato il posto al classico armamentario di chitarra, basso e batteria, i Radiohead smettono i panni della classica guitar band e comprano un mucchio di attrezzatura digitale per iniziare le registrazioni di “Kid A” (EMI/Parlophone, 2000), album su cui mette ancora mano il produttore Nigel Godrich, lo stesso che fece miracoli per “OK Computer” e del cui apporto si sono serviti anche noti artisti quali Beck, R.E.M. e Pavement.

 

Tra l’ottobre del ’99 e l’agosto del 2000 la band affronta contemporaneamente il lavoro in sala d’incisione (effettuato in quattro posti differenti: Parigi, Copenaghen, Oxford e gli Abbey Road Studios di Londra) e un breve tour europeo durante il quale presenta parte del nuovo materiale. Dalle sessions provengono circa una trentina canzoni, ma solo undici troveranno posto su “Kid A”, con quelle che restano i Radiohead appronteranno, invece, la tracklist del successivo “Amnesiac”.

Pubblicato ad ottobre, “Kid A” (il cui titolo dovrebbe ispirarsi ad un progetto di Carl Steadman riguardante un lavoro di Jacques Lacan battezzato “Kid A In Alphabet Land”) non è accompagnato da alcun singolo, né prima né dopo la sua uscita. D’altronde, recuperare un hit radiofonico dalla scaletta dell’album sarebbe un vano tentativo.

Si tratta, in effetti, di un’opera spiazzante, molto al di là dei consueti canoni stilistici che il gruppo ha sviscerato nei suoi dischi precedenti, lanciata a rotta di collo sulle tracce di un sound squisitamente postmoderno, che filtra con notevole coraggio eterei umori filo-Warp, ariose concenzioni mingusiane (ma potremmo anche dire ellinghtoniane oppure colemaniane) ed iridescente popedelia elettroacustica.

Tuttavia, stando alle dichiarazioni dei diretti protagonisti, il disco più ascoltato durante il periodo in cui “Kid A” veniva lentamente alla luce fu “Remain In Light” dei Talking Heads (ancora loro), indubbiamente uno dei migliori esercizi di commistione tra generi che l’avant pop di tutti i tempi possa vantare. Proprio questo guardare “oltre” l’orizzonte del pop, analizzare e dunque esplicitare cosa si debba intendere oggi per musica pop, rende i Radiohead un gruppo così speciale e unico nel panorama odierno.

Se per “popular” dobbiamo intendere un prodotto musicale fruito su larga scala dalle masse, allora qualcosa ci è più chiaro, ed è possibile fugare anche quel briciolo di scetticismo che risiede nella mente del nostro gentile lettore, giustificando, al tempo stesso, il motivo per cui un disco come “Kid A” debba comunque essere considerato “pop” nonostante sembri volgere da qualche altra parte.

Difatti, non c’è tanto da sottilizzare se ciò che oggi gruppi e artisti ci propinano sia abbastanza rock, molto techno, meno ‘post’ o più ‘avant’ di qualche cosa. È importante invece comprendere che nella fase in cui ci troviamo i mezzi utilizzati dai musicisti sono “popolarmente” cambiati rispetto a quelli tradizionali, così com’è “popolarmente” accettato dal pubblico il fatto che un “pattern” elettronico abbia insito in sé una valenza e un’efficacia “pop” pari a quelle di un canonico giro di chitarra.

Va da sè che la natura o le caratteristiche del medium usato finiscano per influire sulla forma-canzone e sulle sue proprietà ritmico-melodiche, ma se questo stravolgimento preserva comunque quel senso di piacevole ripetitività armonica (“una delle grandi virtù della musica pop è che usa la ripetizione, mentre uno dei suoi più grandi difetti e che spesso la usa fin troppo”, affermò una volta, col suo solito acume, Robert Wyatt), allora la sacrosanta essenza del pop rimane, nonostante tutto, sana e salva.

“Kid A”, allora, non è altro che il prodotto di questa lungimirante visione del pop, una musica creata principalmente con strumenti che dialogano tra loro utilizzando un freddo linguaggio binario. Come ammonisce Thom Yorke in Idioteque, “Ice Age Coming”, “l’età del ghiaccio è ormai alle porte”. Una civiltà avanzata la cui espressione artistica, vuoi per immagini, vuoi per suoni, viene oggi universalmente forgiata “a freddo” con l’aiuto di silenziose connessioni a rete, schede video e potentissimi microchip. Dal punto di vista della sensazione (per non dire del tatto) tutto ciò che l’uomo-artista riesce a creare con questi mezzi ci appare incontaminato e algido ma al tempo stesso ricco di inesauribili forme e possibilità d’essere, guarda caso proprietà, queste, che rinveniamo in un cristallo di ghiaccio visto al microscopio.

Quest’orizzonte di senso può essere tranquillamente ravvisato nella titletrack dell’album, un computer parlante dietro una cortina di liquidi rintocchi e frames elettronici, dove ogni tanto fa capolino il beat di una drum machine mescolato ad una calda linea di basso che impedisce al pezzo di evaporare del tutto nell’etere. In altre parole, gli Autechre, Brian Eno e Aphex Twin citati ognuno a turno, ma in modo assai personale, nel giro di un solo brano.

Trasportata, invece, dalle note di una tastiera Roland (il cui mood richiama un’evanescente melodia liturgica), l’iniziale Everything In Its Right Place si propone quasi mediante la stessa strategia, ma con un pathos e una sensibilità molto più marcati grazie alla sfavillante voce del leader che cresce d’intensità attimo dopo attimo, sfaldandosi a tratti in tremolanti echi sintetici e disturbi di frequenza.

Con The National Anthem, introdotta e sorretta da un poderoso ed inquietante riff di basso (inciso in studio da Yorke stesso) siamo improvvisamente catapultati in una New Orleans versione “Blade Runner”. Un’orchestra di fiati e ottoni impazziti nell’idea di coniugare o quanto meno spingere sulla medesima sponda schegge di pop, frammenti space-rock e rottami funky, trascinati a riva da spaventosi cavalloni free-jazz; un azzardo strepitoso che serve caldi in tavola U2, Primal Scream, Hawkwind, Charles Brown, Sun Ra, Ornette Coleman e, naturalmente, l’ultimo Miles Davis elettrico.

How To Disappear Completely è invece la classica pop ballad intrisa di trasognata malinconia (diremmo quasi sulla scia di Let Down presente su “OK Computer”) che in mano ai Radiohead acquista inevitabilmente il sapore dell’originalità fuggendo da facili clichè. Si tratta di uno dei rari brani dell’album che forza l’attenzione sulla voce del leader, altrove volontariamente relegata in secondo piano oppure trasfigurata nell’accento dagli esperimenti di editing al computer svolti in sala d’incisione.

A seguire Treefingers, un ambient strumentale le cui rarefatte atmosfere diresti completamente riprodotte grazie ad un sintetizzatore mentre ciò che senti non è altro che un “taglia e incolla” operato sulla chitarra campionata di Ed O’Brien. A questa pace si contrappone, tuttavia, il caustico impeto sonico di Optimistic, chitarre e basso che tornano prepotentemente in superficie incapaci però nel seppellire l’ennesima, superlativa prova vocale di Yorke che qui interpreta uno dei testi più espliciti e carichi di significato mai usciti dalla sua penna.

Le sorprese sono però ancora molte ed è davvero un piacere aver a che fare con una band che non offre alcun indizio su ciò che ti offrirà da ascoltare nel brano successivo. Limbo diviene così la stanza degli specchi per le mille possibilità canore del leader, mentre il luccicante ardore techno-industrial di Idioteque dirotta la poetica Radiohead nei pulsanti bassifondi di Chicago e Detroit.

Giusto il tempo per essere avvolti dai nervosi drones kraut rock di Morning Bell (tempo che cammina sui 5/4 e una fluttuante linea di piano a rifinire in lisergia il tutto) ed ecco che chiude il sipario l’onirica e straniante dolcezza di Motion Picture Soundtrack, un brano forse inutile come la breve traccia nascosta che segue, ma che corrobora la tradizione Radiohead d’inserire nei propri album vellutati soundscapes ispirati all’immaginario cinematografico.

Disorientante e un tantino difficile da masticare ai primi ascolti, “Kid A” affascina sulla distanza, proprio perchè progettato come plurisfaccettato corpo unico da esplorare, comprendere ed interpretare secondo l’ansia creativa di chi l’ha generato.

Pur non essendo stato pianificato alcun singolo, tour o video per la sua promozione, il disco balza immediatamente in testa alle classifiche statunitensi rimanendovi per oltre un mese. Le interviste concesse dal gruppo sono sporadiche, ma la tensione generata nei fan da questa anticommerciale scelta di porsi fuori dal raggio dei riflettori si placa allorchè Yorke e soci presenziano il 14 ottobre del 2000 ad una puntata del “Saturday Night Live”, il popolarissimo show americano trasmesso via satellite dalla NBC, eseguendo dal vivo (con ensemble di fiati e ottoni a corredo) National Anthem e Idioteque.

Un avvenimento che deve esser visto non solo come la consacrazione definitiva di un gruppo musicale ormai acclamato, ma anche come il più classico dei rituali “pop” riservati ad uso e consumo delle folle.

Nel frattempo Tom Yorke incrementa il numero delle sue collaborazioni (ricordiamo, giusto di passaggio, le precedenti esperienze insieme a DJ Shadow negli UNKLE di James Lavelle e la sua apparizione cinematografica con Jonny Greenwood nei Venus In Furs, la All Star Band protagonista di “Velvet Goldmine”, pellicola prodotta da Michael Stipe) duettanto dapprima con Bjork nell’album “Selmasongs” (colonna sonora approntata dall’artista islandese per “Dancer In The Dark”, film diretto da Lars von Trier) e giocando poi un ruolo preminente in This Mess We’re In, forse tra le poche cose riuscite di “Stories From The City, Stories From The Sea” album sempre del 2000 intestato a PJ Harvey.

“Amnesiac” (EMI/Parlophone, 2001), quinto album della band, vide invece la luce il 5 giugno dell’anno successivo. Diciamo subito che prendere confidenza con gli undici titoli ivi raccolti costa meno impegno rispetto all’esercizio d’ascolto richiesto da quelli che appartengono a “Kid A”. L’afflato sperimentale che era caratteristica prominente di quest’ultimo non manca di esplodere in diversi episodi, ma si avvertono subito delle differenze con l’opera precedente in ragione di una ritrovata loquacità chitarristica e di un maggiore spazio riservato alla voce “naturale” di Yorke quale strumento principale atto a condurre la melodia.

Il fatto che tutti i pezzi risalgano, come abbiamo già detto, al medesimo periodo in cui venne approntato “Kid A”, ci porta inoltre a pensare che il gruppo abbia posto molta cura su ciò che doveva alla fine apparire in ognuno dei due album. Qualcuno, giustamente, si starà anche chiedendo perché i Radiohead non abbiano scelto di utilizzare tutto il materiale registrato all’epoca per pubblicare un unico doppio album.

Data la notevole sterzata verso un suono adulto e finanche più audace rispetto a quello di “OK Computer” (dove comunque era possibile ravvisare qualche protoidea di quel che poi si sarebbe compiaciuta di diventare la musica dei Radiohead), la pubblicazione di un doppio avrebbe comportato da un lato, per il pubblico, uno sforzo d’identificazione con l’attuale registro sonoro della band abbastanza traumatico (molti già stentavano, all’epoca di “OK Computer”, a riconoscersi nei Radiohead di Creep oppure di My Iron Lung), dall’altro, per le composizioni, il pericolo che potesse andar smarrita (nella fatica di un tempo maggiore d’ascolto) la concentrazione adatta per apprezzare al massimo grado tutte le idee e le sfumature ritmiche da esse proposte.

Più saggia, dunque, la strategia di elargire e lasciare sedimentare questa nuova visione del pop nel letto di due distinti album. Ma è poi una nuova visione del pop o, piuttosto, una vera e propria “amnesia” del pop quella che i Radiohead elargiscono con “Amnesiac”?. Diciamo po’ l’una e po’ l’altra insieme.

Al pari di Giano bifronte il disco mostra due facce sulla stessa medaglia. Come Tom Yorke sottolineò in un’intervista, “osservando l’immagine riportata sulla copertina di “Kid A” si ha come l’impressione di stare a guardare le fiamme di un incendio da lontano. “Amnesiac” è sotto forma di suono quel che si dovrebbe provare stando fisicamente tra quelle fiamme”.

Indubbiamente la sensazione di “freddo” che avvertivamo in “Kid A” si attenua adesso per lasciar posto ad un groove sonoro più caldo e avvolgente, sul quale transita la dolente malinconia e l’acuto senso allegorico-simbolico delle parole.

“Amnesiac” si apre con Packt Like Sardines In A Crushed Tin Box, austero battito tribale scandito dal suono di un oggetto metallico percosso metronomicamente (una pentola da cucina, un tubo di ferro? Chissà …) al quale si affianca poco dopo un incisivo drumming elettronico. Poi chitarra e basso all’unisono e la voce quasi irriconoscibile (diresti quasi che sia un altro a cantare) di Yorke che domina senza sforzo sopra un luna-park di loop, campionamenti e pattern digitali. Ottimo inizio, alla faccia di chi dava già per spacciato il propulsivo senso melodico del gruppo.

Al contrario, la successiva Pyramid Song nasce lenta e ipnotica dai tasti impacciati di un piano acustico. Spunta poi una batteria che sembra avere difficoltà nel seguire il tempo del pezzo, nel cui cuore s’impianta un flessuoso suono d’archi avviluppato intorno alla voce in trance del leader.

Con Pull/Pulk Revolving Doors siamo giusto dalle parti di DJ Shadow o simili. Voce trattata al sampler, scratches, bassi distorti, sbuffi hip-hop ed effetti sonori da video-games. You And Whose Army? inizia con un canto sommesso e un tenue arpeggio di chitarra. Poco alla volta entrano in gioco gli altri elementi della band con basso, batteria e piano, mentre il canto, sempre soave, si eleva prepotentemente al cielo.

I Might Wrong propone, da par suo, un’atmosfera sinistra e sintetica. Il ritmo, veloce ed incisivo, proviene principalmente da un’accentuata chitarra new wave, un basso slappato che scorreggia il funky nero-catrame dei Gang Of Four e da breakbeats affilati come lame di rasoio, mentre la voce di Yorke si deforma e sdoppia in un fascinoso gioco di echi.

Knives Out è, al contrario, la canzone più “tradizionale” dell’intera raccolta poiché richiama, sia nella trascinante melodia delle chitarre che nella linea vocale in falsetto, il sempreverde guitar-pop degli Smiths. Risultato: un’obsoleta, ma sempre piacevole, visione del pop.

Lessata in un mood più atmosferico e sub-lunare The Morning Bell/Amnesiac è, invece, il sottile cordone ombelicale che lega “Amnesiac” a “Kid A”. Segue Dollars & Cents, che propelle la sua anima jazzy nel ticchettio del charleston, mentre gli arrangiamenti di tastiere, basso e di una chitarra leggermente dissonante rivolgono lo sguardo al minimalismo cosmico di Faust e Can. Risultato: chiara amnesia pop.

Ancora dopo, Hunting Bears è musica informale che respinge ogni tentativo di mutarsi in melodia, un lento e breve strumentale contraddistinto dalla cadenza asciutta, pacata (quasi faheyana), di una solitaria chitarra acustica.

Like Spinning Plates rimane invece sospesa dalle parti di una costellazione astrale a noi sconosciuta. La voce di Yorke tocca in alcuni momenti il climax celestiale dei toni wyattiani, mentre alle sue spalle il suono di un moog kraut rock fluttua sopra il ribollente magma sonoro prodotto da microtoni e frequenze di chiara matrice autechriana.

Il compito di chiudere il sipario spetta, infine, ad una canzone davvero bella quanto atipica nell’ambito del registro sonoro Radiohead. Life In A Glass House è, infatti, una profumata ballad jazz-blues con fiati e orchestra stile Kansas City anni Cinquanta, interamente bagnata dalle note di un languido piano pinkfloydiano.

Tirando le somme, “Amnesiac” rafforzò la statura e il successo di una band estremamente brillante, capace come poche di giungere subito al nocciolo in tanti modi diversi.

Per celebrare i vent’anni dalla loro pubblicazione i due album sono stati adesso (giustamente) ricongiunti in una ristampa “Deluxe” efficacemente ribattezzata “Kid A Mnesia” (XL Recordings, 2021). Sebbene non rimasterizzata, l’edizione in vinile e in CD aggiunge come “bonus” un terzo disco contenente diverse outtake, qualche inedito e un paio di b-side.

Purtroppo, è proprio questo terzo disco (intitolato “Kid Amnesiae”) che lascia un po’ l’amaro in bocca e tradisce le aspettative rispetto a quanto già proposto ufficialmente dalla band con i due capolavori sopra esaminati. Il tutto si riduce a circa trentaquattro minuti di musica per un totale di dodici tracce in cui le uniche verità (semi)nascoste portano come titolo If You Say The Word e Follow Me Around.

Nella sua svenevole foggia elettroacustica il primo pare cozzare e fare esteticamente a pugni con l’aura spregiudicata ed elettronicamente sperimentale da cui discendono il repertorio e il clima di “Kid A” ed “Amnesiac”, sembrando più aderente alla stagione a cavallo fra “The Bends” e “OK Computer”. Al contrario, il secondo è uno straniante folk pseudopastorale per sola voce e chitarra acustica, già assaggiato e avvistato nel 1998 nella colonna sonora del film-documentario “Meeting People Is Easy”.

Prima e dopo questi due brani trovano poi posto Fog (Again Again Version) e Fast-Track (rispettivamente retri dei singoli Knives Out e Pyramid Song) insieme a tre spicci frammenti strumentali (tra cui Untitled V2 sembrerebbe un abbozzo di Pulk/Pull, qui presente con il testo di True Love Waits sdoganato anni più tardi in “A Moon Shaped Pool”) e altra minutaglia prescindibile come gli arrangiamenti con archi di Pyramid Strings e How To Disappear Into Strings, The Morning Bell in chiave strumentale e una Like Spinning Plates resa più patetica e terrestre dagli accordi di un piano in forte evidenza.

Insomma, un’occasione mancata e un’operazione commerciale che nulla aggiunge alla straordinaria valenza degli album gemelli separati alla nascita. Assai meglio si comportò, invece, la Parlophone nel 2009 con la ristampa in edizione limitata di “Kid A”, includendo in quel box un ottimo disco aggiuntivo di materiale dal vivo e un DVD che documentava l’esecuzione nel 2001 di The National Anthem, The Morning Bell e Idioteque davanti le telecamere americane del “Later Show” di Jools Holland.

Alla fine vien da chiedersi se i Radiohead ci abbiano davvero aperto tutte le stanze segrete delle sedute di registrazione di “Kid A” ed “Amnesiac” oppure se avanzi ancora qualcosa di speciale. Forse, così come accadde con il rilascio ufficiale della cornucopia di materiale raro e inedito dei “Minidiscs Hacked”, bisogna solo sperare che qualcun altro, nel dark web, forzi con cattive intenzioni i loro archivi personali. Chissà!

La verità è che, anche senza questi e altri possibili contorni, le canzoni di “Kid A” ed “Amnesiac” offrono da sole ancora tante soddisfazioni e spunti di riflessione.

Genere: Alternative Rock / Experimental Pop / Electronic

Musicisti:

Thom Yorke – vocals, keyboards, programming, guitar, bass
Johnny Greenwood – guitar, samples, synthesizer, ondes Martenot
Ed O’ Brien – guitar, programming
Colin Greenwood – bass, programming
Phil Selway – drums, percussion, programming
Nigel Godrich – production, engineering, mixing
The Orchestra Of St. John’s – strings

Tracklist:

Kid A
01. Everything In Its Right Place
02. Kid A
03. The National Anthem
04. How To Disappear Completely
05. Treefingers
06. Optimistic
07. In Limbo
08. Idioteque
09. Morning Bell
10. Motion Picture Soundtrack
11. Untitled (Hidden Track)

Amnesiac
01. Packt Like Sardines In A Crushd Tin Box
02. Pyramid Song
03. Pulk/Pull Revolving Doors
04. You And Whose Army?
05. I Might Be Wrong
06. Knives Out
07. Morning Bell/Amnesiac
08. Dollars And Cents
09. Hunting Bears
10. Like Spinning Plates
11. Life In A Glasshouse

Kid Amnesiae
01. Like Spinning Plates (‘Why Us?’ Version)
02. Untitled V1
03. Fog (Again Again Version)
04. If You Say The Word
05. Follow Me Around
06. Pulk/Pull (True Love Waits Version)
07. Untitled V2
08. The Morning Bell (In The Dark Version)
09. Pyramid Strings
10. Alt. Fast Track
11. Untitled V3
12. How To Disappear Into Strings

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MOUSE ON MARS | Autoditacker https://www.soundcontest.com/mouse-on-mars-autoditacker/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=mouse-on-mars-autoditacker Sun, 29 Jul 2012 22:00:00 +0000 http://soundcontest.designet.it/speciali/mouse-on-mars-autoditacker/ Correva l’anno 1997. Dopo il ritorno in pista dei Faust e le ottime prove di Atari Teenage Riot, Kreidler e To Rococo Rot, la Germania del neo kraut rock e techno-pop continuava a stupirci grazie all’uscita del terzo album dei Mouse On Mars.   Lasciatisi alle spalle il divertissement espletato nel precedente EP “Chache Coeur […]

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MOUSE ON MARS
Autoditacker
Too Pure Records
1997

Correva l’anno 1997. Dopo il ritorno in pista dei Faust e le ottime prove di Atari Teenage Riot, Kreidler e To Rococo Rot, la Germania del neo kraut rock e techno-pop continuava a stupirci grazie all’uscita del terzo album dei Mouse On Mars.

 

Lasciatisi alle spalle il divertissement espletato nel precedente EP “Chache Coeur Naif” (in cui avevano fatto bella presenza le cantanti Laetitia Sadier e Mary Hansen degli Stereolab), la coppia costituita da Jan St. Werner e Andi Toma confezionava dodici nuove gemme sonore che rimettevano in discussione il controverso e dibattuto concetto di musica “pop”.

È infatti un pop di qualità sopraffina quello che viene dato di ascoltare in “Autoditacker” (Too Pure, 1997), anche se a produrlo sono macchine e tastiere elettroniche piuttosto che strumenti tradizionali. Poco male se i Mouse On Mars giocano in economia, ciò che conta è che in un’ora di musica siano riusciti a condensare un vero e proprio crogiuolo di stili: lounge e glitch music, drum ‘n’ bass, dub, exotica, dance, noise-pop e ambient.

L’album regala un’esperienza d’ascolto davvero extraterrestre, una luminosità musicale che abbaglia ora con corpose partiture ritmiche (Sui Shop, Twift Shoeblade, Schnick Schnack Meltmade, Tamagnocchi), ora con minimali atmosfere sottomarine la cui linearità viene interrotta da imprevedibili rumori e disturbi di frequenza (vedi Juju, Dark FX e, soprattutto, la straordinaria e sfuggente Sehnsud).

Tale sequenza logica è di tanto in tanto stravolta da splendidi brani costruiti su scale di breakbeat in levare (Tux And Damask) o imperniati su pigre cadenze veicolanti un rigenerante senso di benessere e tranquillità (X-Flies e Rondio). Brillantemente posta in coda c’è infine Maggots Hell Wigs, efficace riassuntino finale per coloro i quali si fossero distratti mettendosi a sognare.

Genere: Electronic / Ambient / Pop / Experimental

Musicisti:
Andi Toma – electronics, keyboards, laptop, production
Jan St. Werner – electronics, keyboards, production
John Frenett – bass (track 04)
Laetiatia Sadier – vocals (track 10)

Tracklist:
01. Sui Shop – 5:12
02. Juju – 4:57
03. Twift Shoeblade – 4:24
04. Tamagnocchi – 5:33
05. Dark FX – 3:21
06. Scat – 4:55
07. Tux And Damask – 5:02
08. Sehnsud – 6:32
09. X-Flies – 6:10
10. Schnick Schnack Meltmade – 6:02
11. Rondio – 4:58
12. Maggots Hell Wigs – 6:49

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JETHRO TULL | Aqualung https://www.soundcontest.com/jethro-tull-aqualung-3/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=jethro-tull-aqualung-3 Tue, 06 Jul 2010 12:10:12 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=52142 Sin dal primo album “This Was” (1968) i Jethro Tull seppero farsi notare quale fenomeno antinomico rispetto alle tendenze musicali in auge nei tardi anni Sessanta inglesi. Sebbene disponesse di elementi tecnicamente dotati (il bassista Jeffrey Hammond-Hammond, il chitarrista Martin Barre e il batterista Clive Bunker), il gruppo di Blackpool divenne, disco dopo disco, la […]

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JETHRO TULL
Aqualung
Chrysalis Records
1971

Sin dal primo album “This Was” (1968) i Jethro Tull seppero farsi notare quale fenomeno antinomico rispetto alle tendenze musicali in auge nei tardi anni Sessanta inglesi. Sebbene disponesse di elementi tecnicamente dotati (il bassista Jeffrey Hammond-Hammond, il chitarrista Martin Barre e il batterista Clive Bunker), il gruppo di Blackpool divenne, disco dopo disco, la creatura personale del dispotico genio di Ian Anderson, colui il quale, grazie a deliranti e spiritati assoli, ebbe il merito di portare il flauto traverso sullo stesso piedistallo della chitarra elettrica nel campo del rock.

 

“Aqualung” (Chrysalis, 1971) fu l’opera che fece decollare il gruppo in classifica, che entrò nelle grazie dei giovani dell’epoca per la fantasiosa polemica morale, religiosa e mitologica dei suoi testi. L’incredibile bagaglio musicale di Anderson sfociava così in un roccioso “progressive rock” imbevuto di folk medievale, musica classica, variazioni blues, scale e strutture jazz-rock.

Il piglio grottesco e teatrale (spesso filtrato) della sua voce ben si fondeva con il mobile suono del flauto, trovando inoltre una sponda perfetta nelle sofisticate articolazioni strumentali che la band disponeva in brani epici quali Aqualung, My God , Up To Me e Locomotive Breath, cavalli di battaglia amatissimi dai fan e mai assenti dal repertorio proposto nelle esibizioni dal vivo nel corso degli anni.

Genere: Rock / Prog-Rock / Pop-Folk

Musicisti:
Ian Anderson – vocals, flute, acoustic guitar
Martin Barre – electric guitar, descant recorder
John Evans – piano , organ mellotron
Jeffrey Hammond – bass, backing vocals
Clive Bunker – drums, percussion

Tracklist:
01. Aqualung – 7:56
02. Cross Eyed Mary – 4:34
03. Cheap Day Return – 1:21
04. Mother Goose – 5:39
05. Wond’ring Aloud – 2:00
06. Up To Me – 3:35
07. My God – 8:27
08. Hymn 43 – 4:22
09. Slipstream – 0:59
10. Locomotive Breath – 5:19
11. Wind Up – 6:40

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THE BEACH BOYS | The Beach Boys Today! https://www.soundcontest.com/the-beach-boys-today/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=the-beach-boys-today Fri, 04 Jun 2010 22:00:00 +0000 http://soundcontest.designet.it/speciali/the-beach-boys-today/ Nel 1964 i Beach Boys pubblicano ben quattro album. Brian Wilson però ha tirato la corda. Due giorni prima di Natale di quello stesso anno è colto da un devastante attacco di panico, anticamera di un esaurimento nervoso che avrà per lui pesanti ripercussioni sia a livello privato sia artistico.   Inizia da questo momento […]

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THE BEACH BOYS
The Beach Boys Today!
Capitol Records
1965

Nel 1964 i Beach Boys pubblicano ben quattro album. Brian Wilson però ha tirato la corda. Due giorni prima di Natale di quello stesso anno è colto da un devastante attacco di panico, anticamera di un esaurimento nervoso che avrà per lui pesanti ripercussioni sia a livello privato sia artistico.

 

Inizia da questo momento l’assunzione di massicce dosi di marijuana seguita dalla drastica decisione di non mettere più piede su un palco e dedicarsi esclusivamente all’attività in studio. Tra il 7 e il 19 il gennaio del 1965 lui, gli altri fratelli Wilson (Carl e Dennis), Mike Love, Al Jardine e non meno di una ventina di altri musicisti-turnisti scelti tra quelli al servizio di Phil Spector finiscono di registrare “The Beach Boys Today!”.

Inciso e pubblicato in “mono”, i primi sintomi del miracolo artistico che a distanza di un anno avrebbe fruttato “Pet Sounds” sono già sparsi nelle dodici tracce di questo album a dir poco sensazionale. “Today!” (Capitol, 1965) è il decisivo spartiacque tra il filone “surf” e quello più lucidamente “pop-rock” cavalcato dal quintetto di Hawthorne, l’opera che vede Brian Wilson rinunciare ai concerti e alle apparizioni in pubblico per trovare rifugio nello studio di registrazione, diventando l’unico alchimista di effetti e ceselli sonori capace d’insidiare il trono di sua maestà Phil Spector.

L’agone con i Beatles è ancora apertissimo e i Beach Boys sono tra il ’64 e il ’65 al culmine della popolarità negli States. “Today!” vanta in scaletta un brano dal ritmo in levare irresistibile, Help Me, Rhonda. Ascenderà come singolo al primo posto di Billboard ma sarà grazie alla versione ancora più perfetta che Brian presenterà nel successivo album “Summer Days (And Summer Nights!!)”.

Dall’iniziale Do You Wanna Dance? (surf anthem ripreso con successo dai Ramones) alla finale Bull Session With The Big Daddy non c’è un pezzo che non sappia innescare la miccia dell’allegria e della spensieratezza (anche sentimentale) per mezzo di un riuscito particolare, sia esso un falsetto, un’armonia vocale, un ritornello, una base musicale o un ricercato artifizio stilistico teso a fondere surf, pop, doo wop e rock ‘n’ roll nel paio di minuti di ogni canzone. Un classico che ancora oggi schiva l’usura del tempo.

Genere: Pop / Rock / Surf

Musicisti:

Brian Wilson – piano, organ, bass, vocals
Mike Love – vocals, percussion
Al Jardine – guitars, vocals
Carl Wilson – guitars, vocals
Dennis Wilson – drums, percussion, vocals

Tracklist:

01. Do You Wanna Dance?
02. Good To My Baby
03. Don’t Hurt My Little Sister
04. When I Grow Up (To Be A Man)
05. Help Me, Rhonda
06. Dance, Dance, Dance
07. Please Let Me Wonder
08. I’m So Young
09. Kiss Me, Baby
10. She Knows Me Too Well
11. In The Back Of My Mind
12. Bull Session With The Big Daddy

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GROUND ZERO | Plays Standards https://www.soundcontest.com/ground-zero-plays-standards/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=ground-zero-plays-standards Fri, 17 Oct 2008 22:00:00 +0000 http://soundcontest.designet.it/speciali/ground-zero-plays-standards/ Che in giro per il mondo esistano dei pazzi raziocinanti come Otomo Yoshihide ci conforta moltissimo e ci istiga dentro quella sacrosanta speranza di poter sempre ascoltare qualcosa d’inusuale e fantastico, qualcosa capace di restituire il senso dell’assoluto moderno (incluse tutte le ansie e metafore del futuro) attraverso il sentimento del classico e del passato. […]

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GROUND ZERO
Play Standards
Nani Records / DIW Records
1997

Che in giro per il mondo esistano dei pazzi raziocinanti come Otomo Yoshihide ci conforta moltissimo e ci istiga dentro quella sacrosanta speranza di poter sempre ascoltare qualcosa d’inusuale e fantastico, qualcosa capace di restituire il senso dell’assoluto moderno (incluse tutte le ansie e metafore del futuro) attraverso il sentimento del classico e del passato.

Alla soglia dei suoi splendidi cinquant’anni, Otomo è unanimemente considerato come una delle più fervide menti agitatrici e improvvisatrici del Sol Levante (un John Zorn con gli occhi a mandorla) e se da un lato i Ground Zero di Tokyo sono stati la sua creatura più nota e istituzionalizzata, dall’altro la sua creatività non subalterna ha dato vita, collateralmente e successivamente, ad una serie di progetti, gruppi e collaborazioni davvero impressionante.

Nella sua specialità di campionatore di suoni e di chitarrista e dall’alto della sua passione pratica per il free jazz, unita a una profonda conoscenza delle musiche etnico-sperimentali, ha fondato i Double Unit Orchestra, i Celluloid Machine Gun, i Mosquisto Paper, gli I.S.O., i Filament, il magnifico New Jazz Quintet (poi esondato nell’ensemble ONJE e nell’orchestra ONJO), partecipato come co-leader ai dischi di Peril, Optical 8, Novo Tono e Dragon Blue, pubblicato lavori “in solo” e “in duo”, composto colonne sonore e collaborato con una quantità ingente di noti artisti e sperimentatori: John Zorn, Bob Ostertag, Jim O’Rourke, Fred Frith, Lawrence D. Butch Morris, David Shea, Keith Rowe, Taku Sugimoto, Jon Rose, Peter Kowald, Oren Ambarchi, Bill Laswell, Elliott Sharp, Martin Tétreault, Günter Müller, Rova, Christian Fennesz e tanti altri ancora.

In “Plays Standards” (Nani / DIW, 1997), giunto due anni dopo la provocazione postmodernista di “Revolutionary Pekinese Opera” (un sampler del sampler) e parallelo ai primi due volumi della trilogia relativa al progetto “Consume” (“Consume Red” e “Conflagration”, entrambi pubblicati nel 1997 ), Otomo Yoshihide si è concentrato nella rilettura di alcuni classici (famosi e non), colonne sonore di film polizieschi giapponesi e arie musicali sudamericane.

Tutto ciò secondo un’ottica decostruzionistica che però si mantiene sempre in perfetto equilibrio, senza calcare troppo la mano verso l’astrattismo e il suono-gesto anarchico fine a se stesso. Accanto al leader (giradischi, chitarre, ance, euphonium e oggetti vari) gli altri elementi “perno” dei Ground-Zero di questa fase, ossia Yumiko Tanaka (shamisen, kokyu, koto), Masahiro Uemura (batteria, percussioni), Yasuhiro Yoshigaki (batteria, percussioni, oggetti), Naruyoshi Kikuchi (sax soprano, tenore e baritono), Mitsuru Nasuno (basso), Kazuhisa Uchihashi (chitarra acustica ed elettrica) e Sachiko Matsubarai (sampler, omnichord).

Quando prende l’avvio El derecho de vivir en paz + Shinoshin ¾ (una melodia sudamericana del famoso cantautore, musicista e registra teatrale cileno Victor Jara legata ad un tema pop del sassofonista Shinoda Masami), la potemte perizia tecnica del gruppo dà la stura ad un crossover affascinante nel quale convivono gusto occidentale ed orientale.

Appresso c’è Ultra Q, tema di una serie televisiva nipponica che Otomo e soci infarciscono di ambient, linee di basso ossessive, surf e free jazz metropolitano. Sempre riguardo al recupero di sigle televisive abbiamo poi il massacro di Those Were The Days di Gene Raskin (cabaret industriale con stralci di samples dal motivo originale) mentre a testimonianza della sua passione per i ritmi latino-americani, Yoshihide ci serve sul piatto Folhas Secas, una piacevole e surreale samba ipermoderna accompagnata da breaks elettronici e melodiosi arrangiamenti jazzati.

Uno dei picchi dell’album è invece lo stravolto medeley di Washington Post March e Japan Dissolution degli Omoide Hatoba (side-project dei Boredoms), insieme ai cinque minuti di distorsioni e mutilazioni chitarristiche perpetrate a danno dell’ascoltatore in Akashia No Ame Ga Yamu Toki, composizione del leggendario e inarrestabile contraltista giapponese Kaoru Abe.

Altro vero delirio sonico è la riproposizione di Bones (originale scritto da Fred Frith e Bill Laswell) in chiave Naked City (jazz-hardcore con immancabile intrusione di urla kamikaze), oppure, a scelta, i rumori da toilette che rendono pazzesco Where Is The Police? di Misha Mengelberg e Steve Beresford. Su Un versante ancor più surrelae e quasi pischedelico si pongono la maestosa Miagetegoran, Yoru No Hoshi Wo di Izumi Taku e la new age orientaledi Youme No Hansyu (ripresa dal repertorio dei Novo Tono con cove campinata di Phew).

Poesia, intimismo ed inquietudine sono profusi in abbondanza nella rilettura di Die Pappel Vom Karlsplatz di Bertold Brecht, mentre il gran finale spetta al medley di due noti classici di Burt Bacharach ( A Better Tomorrow + I Say A Little Prayer, quest’ultima secondo la versione incisa nel 1973 da Rahsaan Roland Kirk), resi euforici dalla micidiale verve isterica che contraddistingue i musicisti del Sol Levante.

Tutto il repertorio non fa una piega e testimonia, ancor oggi, l’attualità di “Play Standards”, album che peraltro mostra in anticipo il largo spettro degli interessi e delle influenze che poi sono entrati a far parte dell’arte sonora di Otomo Yoshihide dopo lo scioglimento del progetto.

Genere: Experimental / Rock / Avant / Noise / Jazz / World Music / Electronic

Musicisti:

Otomo Yoshihide – turntables (1-5,7-12), self-made guitar (2,6,12), electric guitar (9), voice (3,5), whistling (8,10), surdo (4), agogo bell (4), tubes (8), euphonium (8), reeds (8), toys & sounds (8)
Kazuhisa Uchihashi – guitar & Fx (1-6,8-12), acoustic guitar (7), voice (5)
Sachiko Matsubara – sampler (1-3,5,7-12), Omnichord (4), voice (5)
Yumiko Tanaka – futozao-shamisen (1,7,8,11), hosozao-shamisen (5,10,12), kokyu (2), koto (9), taisho-koto (3), voice (1,3,5,7,10,12), toys (5)
Naruyoshi Kikuchi – tenor sax (1-3,5,10,12), soprano sax (4,7-10) & baritone sax (4,7,11) saxes, voice (5)
Mitsuru Nasuno – bass (1-5,7,9-12), voice (5,10)
Masahiro Uemura – drums (1-3,5,7,9-12), shaker (4), tambourine (4), gong (12), voice (5)
Yasuhiro Yoshigaki – drums (1-3,5,7,9-12), djembe (1), bass drums (2,11), cymbals (2,11), congas (2), pandeiro (4), quica (4,5), caixa (4), gong (5,9,12), goat-hoof jingle (5), tambourines (12), klaxon (12), whistle (12), acme siren (12), voice (3,5)

(Sampled Guests):
Sergey Kuryokhi – piano (3)
Keshavan Maslak – sax,altered miniature guitar (3)
Phew – voice (10)

Tracklist:

01. El Derecho de Vivir en Paz + Shinoshin 3/4
02. Ultra Q
03. Those Were The Days
04. Folhas Secas
05. Washington Post March + Japan Dissolution
06. Akashia No Ame Ga Yamu Toki
07. Bones
08. Where Is The Police? + The Bath Of Surprise
09. Miagetegoran, Yoru No Hoshi Wo
10. Yume No Hansyu
11. Die Pappel Vom Karlsplatz
12. A Better Tomorrow + I Say A Little Prayer

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THE FLYING LUTTENBACHERS | Gods Of Chaos https://www.soundcontest.com/the-flying-luttenbachers-gods-of-chaos/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=the-flying-luttenbachers-gods-of-chaos Mon, 28 Jul 2008 22:00:00 +0000 http://soundcontest.designet.it/speciali/the-flying-luttenbachers-gods-of-chaos/ “Destroy All Music” era il titolo–slogan di uno tra i più cacofonici e apocalittici album dei Flying Luttenbachers, cardine programmatico di un golpe letale nei confronti della libera improvvisazione e dell’avant-noise rock senza precedenti nel panorama underground degli anni Novanta.   Nel 1995, quando il disco apparve, la famigerata scena “now wave” chicagoana era giusto […]

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THE FLYING LUTTENBACHERS
Gods Of Chaos
Skin Graft Records / ugEXPLODE Records
1997

“Destroy All Music” era il titolo–slogan di uno tra i più cacofonici e apocalittici album dei Flying Luttenbachers, cardine programmatico di un golpe letale nei confronti della libera improvvisazione e dell’avant-noise rock senza precedenti nel panorama underground degli anni Novanta.

 

Nel 1995, quando il disco apparve, la famigerata scena “now wave” chicagoana era giusto all’apice della sua popolarità, ma i Flying Luttenbachers di Weasel Walter, barbaro batterista e polistrumentista (clarinetto, sassofono, basso, tastiere) avevano percorso solo metà della strada che li avrebbe condotti alla deturpante operazione di azzeramento e massacro delle logiche retrostanti alle più anarcoidi avanguardie rock e free jazz.

La fase topica della brutale missione giunge nel 1997, quando Chuck Falzone (chitarra), Bill Pisarri (basso, violino e clarinetto) e Weasel Walter (batteria, sassofono) costituiscono la terza incarnazione (la più criminale e devastante di altre numerose a seguire) dei Flying Lutthenbachers.

Intanto un breve riassunto delle puntate precedenti. Formati a Chicago nel tardo 1991, dal veterano sassofonista Hal Russel Luttenbacher, dal suo allievo Weasel Walter e da Chad Organ (sassofono tenore), i Flying Lutthenbachers esordiscono con il “Live At WNUR 2-6-92” (pubblicato su cassetta e poi ristampato nel 1996 su CD dalla ugEXPLODE, label personale di Walter), seguito poi da due EP su 7’’, “546 Seconds Of Noise” (ugEXPLODE, 1992) e “1389 Seconds Of Noise” (UgEXPLODE, 1993).

Con la dipartita a miglior vita di Russell (nell’autunno del 1992), Weasel Walter diviene il leader-despota del progetto, libero d’iniziare così l’ascesa verso le vette dell’inudibile. Nel 1994 Walter assembla un quintetto con Ken Vandermark (clarinetto, sassofono), Chad Organ (sassofono), Jeb Bishop (basso, trombone) e Dylan Posa (chitarra), registrando e pubblicando “Constructive Destruction”, primo album ufficiale dei Flying Luttenbachers. Nel 1995, con Vandermark che figura solo in metà dei pezzi, esce il già citato ed epifanico “Destroy All Music”.

Weasel Walter spinge a questo punto il carrarmato fuori strada, congeda i vecchi compari e assolda Chuck Falzone insieme a Bill Pisarri. Nel 1996 Il trio spara fuori “Revenge”, l’album che inaugura il rapporto con la Skin Graft, l’etichetta di riferimento della Now Wave chicagoana. L’anno successivo la band giunge finalmente a quel mostruoso parto sonoro battezzato senza peli sulla lingua “Gods Of Chaos” (UgEXPLODE/Skin Graft, 1997).

Con questo lavoro l’epica della distruzione del free jazz e dell’obliterazione del paradigma rock sorge da un baratro postnucleare in cui il rumore si entropizza dentro un magma di decibel e ipercinecità. La parola d’ordine è, in questo caso, free noise, ma il messaggio coinvolge dentro anche hardcore, grind-metal e musica industriale.

Anche se in tanti hanno chiamato in aiuto modelli quali DNA, Chrome, Mars, Captain Beefheart, Napalm Death, Crisis, Boredoms, God Is My Co-Pilot, Albert Ayler, Borbetomagus e Naked City per spiegare “Gods Of Chaos”, c’è da dire che nella sua intensa brutalità il suono dell’album è qualcosa di molto più originale, esistenziale e concettuale: discende infatti dall’improvvisazione ma accoglie gli schemi del progressive, s’inerpica con decisione su crinali kruti e metalloidi per poi fluttuare tra stellari galassie sunraniane.

Si ascolti infatti la struttura e lo sviluppo in chiave di piccola suite dell’iniziale Pointed Stick Variations: rugginose luccicanze space-noise che cedono il posto a marziali pestaggi di batteria e monocordi riff di chitarra, poi il feedback che aumenta la sua intrusione e accompagna, nella foga di un ritmo ormai divenuto squadrato e tellurico, i lancinanti e convulsi fraseggi di un sax contralto.

Gli altri brani (i titoli segnalati sono sei, ma in realtà le tracce indicate dal lettore sono dodici), tutti strumentali, sono l’equivalente musicale di rabbiose manganellate sui timpani. Steeam Of Needles parte con logorante gioco di svisate chitarristiche e possenti scudisciate di batteria, aprendosi infine in un contorto e anarchico puzzle di piatti e piani percossi, puntillismi e sfregi di chitarra radical free e sarabande rumoristiche di contorno.

The Floatation Method è un altro rovinoso e snervante scherzo improvvisativo per percussioni, chirurgici assolo di chitarra e tridimensionali effetti di synth. Alien Autopsy è un collage di pungente grindcore mozzafiato, atroci lamenti da Gehenna e disordinate geometrie avant rock.

Ancor più difficile tener dietro a The Sun Is Bleeding, mastodontica suite di tredici minuti e supremo esperimento di death-free-jazz che centrifuga con incredibile virtuosismo John Zorn, Buckethead, Slayer, Albert Ayler e Frank Zappa. Atmosfere catastrofiche ma più regolari compaiono nella seconda parte di Cryptosporidium, dove un’esteso prologo impro-prog-jazz prende le fattezze di una furente cavalcata speed metal.

Capolavoro dell’eccesso e manifesto del “death-jazz”, “Gods Of Chaos” è la chiave di volta per comprendere la grandezza rivoluzionaria e l’ecletticità dei Flying Luttenbachers, l’album a cui Weasel Walter non riuscirà più a dare altri degni eredi nel proseguio della sua folle carriera di serial-killer della musica.

Genere: Noise / Avant Free Rock / Death Free Jazz / Creative Music

Musicisti:

Chuck Falzone – electric guitar, percussion, bass guitar
Bill Pisarri – bass guitar, violin, clarinet, percussion
Weasel Walter – drums, saxophone, vocals, synthesizer, clarinet

Tracklist:

01. The Pointed Stick Variations 10:38
02. Stream Of Needles 10:04
03. The Floatation Method 4:00
04. Alien Autopsy 3:27
05. The Sun Is Bleeding 13:02
06. Cryptosporidium 4:42

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DON CABALLERO | What Burns Never Returns + STORM AND STRESS | Self Titled https://www.soundcontest.com/don-caballero-what-burns-never-returns-storm-and-stress-self-titled/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=don-caballero-what-burns-never-returns-storm-and-stress-self-titled Sat, 28 Jun 2008 22:00:00 +0000 http://soundcontest.designet.it/speciali/don-caballero-what-burns-never-returns-storm-and-stress-self-titled/ Sul piano estetico e strumentale i Don Caballero di Pittsburgh hanno rappresentato il proseguimento e il vertice di quella straordinaria rivoluzione innescata dagli Slint di “Spiderland”. Un modo nuovo d’intendere (e superare) l’avant rock d’estrazione noise-post hardcore, facendo cadere in anticipo sul piatto ciò che fu il pane quotidiano masticato da altrettanti validi esponenti quali […]

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Sul piano estetico e strumentale i Don Caballero di Pittsburgh hanno rappresentato il proseguimento e il vertice di quella straordinaria rivoluzione innescata dagli Slint di “Spiderland”. Un modo nuovo d’intendere (e superare) l’avant rock d’estrazione noise-post hardcore, facendo cadere in anticipo sul piatto ciò che fu il pane quotidiano masticato da altrettanti validi esponenti quali Tortoise, June Of 44, Gastr Del Sol e compagnia “math-post rock” cantando.

Devo comunque ammettere che allorquando acquistai il loro primo album “For Respect” (era il 1993) ebbi la reazione inconsulta di gettare il CD nel cestino dopo un paio di ascolti. All’epoca presentarsi con un repertorio completamente strumentale, costituito da vertiginose e geometriche accelerazioni noise-jazz-hardcore, era in assoluto una mossa fuori da ogni logica di mercato.

Poi, chissà perché, qualche giorno dopo lo recuperai e lo riposi nello scaffale. In quella musica c’era indubbiamente qualcosa di astruso e intrigante che inconsapevolmente continuava a ronzarmi nei timpani, cosicchè gli ascolti successivi mi rivelarono un gruppo che con le iconoclaste e ruvide maniere dei Black Flag (quelli dell’EP strumentale “The Process Of Wedding Out”) disquisiva in maniera alchemica e originale sulla lezione dei King Crimson e sull’astratto free form rock coniato dagli incommensurabili Henry Cow.

D’altronde non è pur sempre vero che spesso molti grandi amori prendono l’avvio dopo un periodo di sostenuta noncuranza e indifferenza da parte di uno degli amanti? L’importante è poi accorgersi in tempo dell’errore di certe opinioni e sensazioni affrettate.

“What Burns Never Returns” (Touch And Go, 1998) fu il terzo album della band dopo già otto anni di attività. Artefici dell’opera: la coppia di chitarristi formata da Mike Banfield e Ian Williams, l’incredibile batterista Damon Che Fitzgerald e il bassista Pat Morris. Otto i brani di questo album di svolta, che errando e spaziando in molteplici direzioni abbracciano con piglio marziale (o marziano?) un rock evoluto fatto di sincopi, accelerazioni, arresti e dissonanze minimali.

Complessivamente lo preferisco al precedente “Don Caballero 2”, che resta pur sempre un grandissimo disco. Ora, tuttavia, la materia sonora si lascia ascoltare con maggior piacevolezza e l’esperienza acquisita favorisce risultati che in virtù dell’ormai compiuta canonizzazione di un certo tipo di sound sono facilmente decifrabili a dispetto del terreno sperimentale da cui sorgono.

Ciò che lascia sconcertati è la nuova attitudine a scegliere dei titoli lunghissimi (In The Absence Of Strong Evidence To The Contrary, One May Step out Of The Way Of The Charcing Bull) oppure dal significato ermetico (Delivering The Groceries At 138 Beats Per Minute), ma possiamo immaginare questi come sfoghi di musicisti che lasciano volutamente da parte il canto e i testi nelle loro composizioni.

Nel pezzo che apre le danze (Don Caballero 3) si comprende immediatamente come le percussioni di Damon Che giochino un ruolo rilevante all’interno degli austeri ponti strumentali innalzati dalle chitarre e dal basso. Molto dinamico e memore delle passate acrobazie propulsive il brano successivo (quello dall’abnorme titolo sopra citato), mentre Delivering The Groceries è disseminato di ringhiosi episodi e riff circuitali che nella sostanza rievocano il verbo noise-punk di Chicago. Slice Where You Live Like Pie vive invece sui tempi impazziti del math rock più astratto, che in Room Temperature Suite produce un arcobaleno d’invenzioni dirompenti e spiazzanti.

The World In Perforated Lines e From The Desk Of Elsewhere Go concorrono, viceversa, a istituzionalizzare uno spigoloso progressive-rock in linea con il terzo millennio in procinto di bussare alla porta. Chissà poi cosa avrebbe dato Steve Albini per far sua la partitura espressa dalla conclusiva June Is Finally Here, un metallico diorama che dispensa ritmi geometrici e e armonie ellittiche pregevolmente organizzate secondo l’arte della libera improvvisazione. In poche parole un gruppo avanti anni luce sugli altri contendenti e album magnifico (ancora suggestivo e per nulla logorato dal tempo) da mettersi in casa.

Voto: 9/10
Genere: Math Rock / Alternative Noise Rock

Concatenato a questo cambio di rotta e certamente non poco galeotto fu, tuttavia, un album epifanico apparso l’anno prima, vale a dire il doppio omonimo con cui esordiscono gli Strom And Stress, diramazione a carattere isolazionista dei Don Caballero, dato che titolare del progetto è il chitarrista Ian Williams, coadiuvato da Eric Topolsky al basso, Kevin Shea alla batteria e Micah Gaugh al piano e alla voce (sovente al fianco di Cecil Taylor).

Per descrivere Strom And Stress” (Touch And Go, 1997) non saprei trovare altri aggettivi ed esempi all’infuori di anticonvenzionale, spontaneo, geniale, eccessivo; gli Slint che incontrano Derek Bailey e lo invitano in studio per sottometterlo alle direttive estetiche di Steve Albini. I sette brani che lo compongono sembrano la più probabile metafora creativa dell’anarchia in musica.

Scordatevi la tradizionale struttura del pezzo rock e siate piuttosto pronti ad imboccare gli accidentati sentieri ornettiani del free jazz. Dappertutto si sente un isterico sbattere di piatti, un nervoso pizzicare di corde e flebili vocalizzi che accompagnano i timidi accenni di sporadiche melodie incompiute. Sembra quasi che le note svolazzino in un’atmosfera priva di gravità, dove ogni elemento si muove e libra in aria all’infinito senza mai posarsi. Unica eccezione è Micah Gaugh Sings All Is All, dolce interludio di un ubriaco che per caso si è seduto vicino a un pianoforte.

In questo contesto il chitarrismo di Williams già si rivela radicale, innovativo, sia nei timbri aspri sia nella tessitura di ovattate dissonanze atonali, mentre all’interno e a latere di ogni traccia si solidificano ed evaporano le pulsanti figurazioni algo-ritmiche di Kevin Shea. Un presagio, forse ancora troppo impercettibile, delle meraviglie soniche che, in tempi più rasenti all’oggi, i due sapranno inventarsi e regalarci a capo dei Battles e dei Talibam.

Voto: 9/10
Genere: Math Rock / Alternative Noise Rock

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