Aldo Del Noce, Autore presso Sound Contest https://www.soundcontest.com/author/aldodelnoce/ Musica e altri linguaggi Wed, 17 Jan 2024 11:57:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.1 SINIKKA LANGELAND | Wind and Sun https://www.soundcontest.com/sinikka-langeland-wind-and-sun/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=sinikka-langeland-wind-and-sun Sat, 13 Jan 2024 11:12:32 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63525 Permane piuttosto personale il percorso creativo di Sinikka Langeland, coniugante nel proprio ricettario poetico e sonoro un complesso background favolistico e pedagogico attingente alla nativa area di Finnskogen, territorio norvegese un tempo popolato da migranti forestali finlandesi cui apparteneva la madre dell’artista, immigrata dalla Carelia. Dall’area e dal nucleo etnico, definiti come latori di “vecchi […]

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SINIKKA LANGELAND
Wind and Sun
ECM records 2776
2023

Permane piuttosto personale il percorso creativo di Sinikka Langeland, coniugante nel proprio ricettario poetico e sonoro un complesso background favolistico e pedagogico attingente alla nativa area di Finnskogen, territorio norvegese un tempo popolato da migranti forestali finlandesi cui apparteneva la madre dell’artista, immigrata dalla Carelia.

Dall’area e dal nucleo etnico, definiti come latori di “vecchi canti runici preservanti una meravigliosa poesia con radici in un’antica cultura sciamanica della foresta”, Langeland ha tratto ampie e strutturate fonti ispirative, catalizzate dal tradizionale salterio kantele (cui si è devoluta per oltre quattro decadi) e dalla vocalità, persistendo con pazienza nell’edificazione di un repertorio attento alla materia tradizionale ma in cerca anche di una propria miscela, immettendosi entro una forte e personale corrente etno-jazz svelata nell’originale “Starflowers” (2007, prima uscita ECM), già sorprendente per la disinvolta e spericolata lezione di stile, finora coerentemente coltivato, salvo digressioni di più tradizionale carattere, fino all’album in oggetto.

Se nelle prime esperienze discografiche Sinikka celebrava la poetica minimale e “naturale” del poeta-boscaiolo Hans Børli, nella presente occasione palesa un indubbio valore aggiunto ponendo in musica le meditazioni dello scrittore e drammaturgo Jon Fosse, di complessa personalità e peculiare misticismo, oltre all’originale stile scrittorio (peraltro insignito del premio Nobel per la letteratura appena pochi giorni dopo l’uscita dell’album, “per le sue opere innovative e la sua prosa che danno voce all’indicibile”).

Le non poche ambizioni filosofiche di Fosse sembrano trovare un fertile terreno d’incontro entro la poetica già fluviale ed argomentata di Langeland, che rilancia senza eccessi ma sempre con originalità di firma un nuovo programma, avvalorato anche dal corredo di immagini del fotografo Dag Alveng, ospite in più occasioni dei progetti di Sinikka, che trova l’arte di costui “in una combinazione particolarmente buona con le poesie di Fosse, poiché sono entrambe così semplici pur di carattere forte”.

Si riconferma l’abituale soundscape, di vibrante spirito naturalistico e non di rado metafisico, già dalle prime battute dell’introduttiva Row my Ocean, solenne e luminosa declamazione prontamente vivacizzata dai metallici inserti dei fiati solisti e naturalmente dalle cristalline timbriche del cordofono kantele, svettante sulla fluida traccia melodica.

photo by Oddleiv Apneseth

Di più criptico mood l’eponima Wind and Sun, aprente con acustiche nebulose e crepuscolari, quindi fissandosi di contemplativo spirito free; s’incorpora quindi un incedere da aria di settecentesca grazia e contemporanea assertività in It walks and walks, in cui la serena autorevolezza del cantato contrappunta con le volute d’ancia di Frode Haltli (il partner probabilmente più interessante nell’intera operazione), di struggente sensibilità.

Spazio per luminosa sensibilità infantile nella delicate e toccante When the Heart is a Moon, percorsa da brezze della memoria, le cui liriche fanno riferimento al passaggio di angeli recanti messaggi dall’oltretomba; di nuovo la magia del kantele apre al mondo dell’infanzia, come dal titolo A Child who Exists, dal cui canto emerge uno spirito femmineo e materno, profondo ed universalistico.

Emotività remota ed ambienze serotine e chiaroscurali nella composita A Window Tells, cui gli stilemi jazzy e blues sembrano apportare alla sintesi di Langeland più lo spirito lirico che le meccaniche stilistiche; inattesa fisonomia e cadenza chitarristica del nordico strumento in apertura di The Love, innervata dalla solida e calda linea di basso e dal palpitante duettare dei fiati, entro una surreale ed ondulante pulsazione, all’insegna comunque di temperate luci e languida comunicativa.

Attraversando alcune variazioni sulle precedenti tracks, l’epilogo giunge su You Hear my Heart Come, affidante ancora ai fiati una libera loquela jazz, definendo in spirito cantautoriale un’ulteriore esempio della microingegneria fusion della titolare.

Stilemi trans-temporali e grande libertà formale alla base della peculiare progettazione di sound, con cui Langeland rilancia in termini di solidità, e stabilizza la line-up  (che nel passato ha visto anche militare Arve Henriksen, Anders Jormin e Markku Ounaskari) con gli intoccabili talenti del momento, tali l’impagabile ancia di Trygve Seim, di prosodia orientaleggiante e spesso tangente il sortilegio, l’ottone chiaroscurale ed estroso di Mathias Eick, il vibrante istinto scultoreo di Mats Eilertsen e la cangiante materia ritmica del polivalente Thomas Strønen, non disconoscendo il protagonismo mai invasivo ma determinante della leader, dalla vocalità ieratica e a tratti fuori dal tempo.

Come una singolarità riesce (così è ipotizzato) a piegare lo spazio-tempo, si può ritenere che il già duttile jazz si pieghi (nel senso dell’omaggio) alla singolarità dell’arte (o delle arti) di Sinikka:  palesando nobiltà di retaggio e ben amministrato senso del melting, “Wind and Sun” esita in un ennesimo saggio, piuttosto personale, di mistica naturale insolitamente abile a coniugare sapienza e meraviglia.

 

Musicisti:

Sinikka Langeland, voce, kantele
Trygve Seim, sax tenore e soprano
Mathias Eick, tromba
Mats Eilertsen, contrabbasso
Thomas Strønen, batteria

Tracklist:

01. Row My Ocean (Jon Fosse, Sinikka Langeland) 7:08
02. Wind And Sun (instrumental) (Jon Fosse, Sinikka Langeland) 2:56
03. It Walks And Walks (Jon Fosse, Sinikka Langeland) 6:49
04. When The Heart Is A Moon (Jon Fosse, Sinikka Langeland) 5:14
05. Hands That Held (Jon Fosse, Sinikka Langeland) 4:06
06. A Child Who Exists (Jon Fosse, Geirr Tveitt, Sinikka Langeland) 4:44
07. A Window Tells (Jon Fosse, Sinikka Langeland) 6:38
08. The Love (Jon Fosse, Sinikka Langeland) 4:48
09. Wind Song (Jon Fosse, Sinikka Langeland) 3:15
10. A Child Who Exists (var.) (Jon Fosse, Geirr Tveitt, Sinikka Langeland) 4:33
11. Wind And Sun (Jon Fosse, Sinikka Langeland) 6:59
12. You Hear My Heart Come (Jon Fosse, Sinikka Langeland) 8:46

Link:

Sinikka Langeland
ECM records

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BENEDICTE  MAURSETH | Hárr https://www.soundcontest.com/benedicte-maurseth-harr/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=benedicte-maurseth-harr Tue, 26 Dec 2023 17:42:31 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63331 Hárr by Benedicte MaursethNon potendo più dichiararci ignari del profondo senso poetico e della grande cultura immaginativa di una significativa schiera di musicisti scandinavi contemporanei, avevamo conseguito anche una graduale confidenza con la figura della violinista avant-folk Benedicte Maurseth, autrice o coprotagonista entro una serialità discografica di una decina di titoli, ma soprattutto firmataria di […]

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BENEDICTE  MAURSETH
Hárr
Hubro music  HUBROCD2645 / -LP3645
2022

Non potendo più dichiararci ignari del profondo senso poetico e della grande cultura immaginativa di una significativa schiera di musicisti scandinavi contemporanei, avevamo conseguito anche una graduale confidenza con la figura della violinista avant-folk Benedicte Maurseth, autrice o coprotagonista entro una serialità discografica di una decina di titoli, ma soprattutto firmataria di almeno un paio di importanti volumi dedicati al prediletto strumento Hardanger, blasonata variante nordica della famiglia dei violini.

Adeguatamente argomentato il recente passaggio in casa Hubro music, arruolante anche sodali d’acclarata personalità, esibendo una formula-base in trio condivisa coI sensibile vibrafonista Håkon Stene e completata dall’eclettico e solido contrabbassista Mats Eilertsen (da tempo archiviati i grandi trascorsi nel Tord Gustavsen trio, e fattivo artefice di una propria quanto diversificata carriera); ospiti variamente interagenti Stein Urheim (altro fertile autore e multi-strumentista qui impegnato al caratteristico Langeleik ed a vari interventi di complemento), Rolf-Erik Nystrøm al sax nonché le elettroniche di Jørgen Træen.

Ed è nella dimensione del sortilegio che sembra aprirsi l’album, in termini più sfumati nel breve Augnast, aprente con sensibilità una visione di fioche luci, con modalità di certo più assertive nello strutturato Heilo, segnati ritmicamente sia dalle lamine che dalle corde basse, su cui l’arco tratteggia una spontanea e catturante sequenza di frasi d’efficace carattere narrativo.

Metamorfosi d’atmosfera nel ben differente Reinsdyrbjøller, di arcadica contemplazione e primigenia nebulosità, intessute su fluenti elettroniche e capricci percussivi; frizzante corollario di synth nella concisa Kollasj I, di curiosa ambienza bucolica ed includente un’antica registrazione di voci degli antenati di Maurseth,  Franz Gustav Andersson Törna e Leif Maurseth, entrambi cacciatori oltre che pastori di renne, quest’ultimo (cosa non insolita per la label Hubro) raffigurato in copertina nell’azione quotidiana, oltre a costituire un breve saggio di concrete music improntato all’orgoglio ancestrale.

Eidfyrder è vibrante passaggio meditativo, ardita combinazione di senso naturalistico e post-modernismo, transitando nel cullante spirito danzante dell’eponima Hárr (arcaico termine norreno per Hårteigen, la più caratteristica montagna nell’area di Hardanger, originaria della famiglia Maurseth).

Non privo di asprezze né di qualche azzardo compositivo, il fascinoso Hreinn offre ulteriori prospettive sulla regia e sulla forza espressiva di Benedicte, Kollasj II si distingue dall’omonimo precedente per astrattezza e libertà di disegno (includendo ulteriori estratti vocali parentali), conducendo a termine la sequenza nei tratti quasi immateriali di Snø over Sysendalen, ispirata contemplazione al di fuori delle dimensione del tempo.

Per un album in cui si dichiara di non ricorrere “né a pirotecnie, né a trilli del diavolo”, l’articolato esito sortisce di sapido quanto originale carattere etno-avant, animato dalla riuscita intesa dei talentuosi sodali, dei quali è d’obbligo lodare gli apporti, nel dettaglio la poco sorprendente conferma del talento di Mats Eilertsen, che riesce a rimanere entro i ranghi non perdendo nulla della presenza di grande carisma, e l’inatteso fascino del gioco di lamine di Håkon Stene, improntante più passaggi, ma non potendo certo tacere della restante, dotata line-up, su cui a più riprese svetta con luminosa ispirazione il variegato gioco d’arco della leader, ormai graziata da una matura voce propria.

Tributo colto ed immaginifico alle fascinose radici, cui lancia un ulteriore ponte verso estetiche futuribili, la sequenza attinge a caratteri di perla che con efficaci argomentazioni s’incastona entro una già preziosa filiera, che incorpora sia certi omologhi strumentali (l’arco è esteso e trans-generazionale, dai Nils Økland agli Erlen Apneseth etc) quanto peculiari creativi quali la sempre originale Sinikka Langeland o la veterana Lena Willemark, come certe sortite del Garbarek di “Rosensfole” – giusto per azzardare una connessione d’estrema sintesi entro un mondo di creativi e di segni invece assai più esteso e stratificato.

In forza di un soundscape ben studiato quanto composito, il presente “Hárr” è insomma un album nient’affatto di circostanza né meramente partecipativo, e la cui ricchezza ideativa sarà da rivalutare nel tempo.

 

Musicisti:

Benedicte Maurseth, violino Hardanger
Mats Eilertsen, contrabbasso, elettroniche
Håkon Stene, vibrafono, percussioni, elettroniche
con:
Jørgen Træen, elettroniche
Rolf-Erik Nystrøm, sax
Stein Urheim, Langeleik, armonica, elettroniche, sampling, percussioni

Tracklist:

01. Augnast 3.19
02. Heilo 7:32
03. Reinsdyrbjøller 5:49
04. Kollasj I 2:41
05. Eidfyrder 4:16
06. Hárr 3:51
07. Hreinn 6:18
08. Kollasj II 4:18
09. Snø over Sysendalen 5:16

Link:

Benedicte Maurseth

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KASPER AGNAS | Grain Live https://www.soundcontest.com/kasper-agnas-grain-live/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=kasper-agnas-grain-live Thu, 23 Nov 2023 16:07:52 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=62967 Grain Live by Kasper AgnasNell’estremo Nord (visto almeno dalle nostre latitudini) la scena svedese non è certo silente, sia in termini di partecipazione alla scena pop che di contributi alle scene jazz ed avant-garde. Con palese pedigree di ricercatore ed innovatore, il chitarrista Kasper Agnas ha portato avanti, tra l’altro, una produzione in ambito familiare […]

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KASPER AGNAS
Grain Live
FRIM records
2023

Nell’estremo Nord (visto almeno dalle nostre latitudini) la scena svedese non è certo silente, sia in termini di partecipazione alla scena pop che di contributi alle scene jazz ed avant-garde.

Con palese pedigree di ricercatore ed innovatore, il chitarrista Kasper Agnas ha portato avanti, tra l’altro, una produzione in ambito familiare con il vivace quartetto avant-fusion Agnas Bros. (non sorprendentemente, un’associazione con i fratelli Konrad, Mauritz and Max, impegnati rispettivamente su batteria, contrabbasso e pianoforte, con diversi album già all’attivo), nonché svariate collaborazioni (citiamo a memoria da Nils Landgren a Susana Santos Silva, fino al recente arruolamento nello Alex Zethson Ensemble).

Quanto alla personale attività, vi è un primo album del 2021 per Haphazard Music (“Grain”), e nel presente caso la label svedese FRIM ne ospita una riedizione live (appunto “Grain live”), che all’incirca ne ripropone il programma, ma con evidenti revisioni tecniche nell’impianto esecutivo.
Ripreso al centro Fylkingen di Stoccolma nel 2021, la sequenza esordisce riprendendo il secondo brano del precedente album: 1992 è un passaggio caratterizzato da un approccio percussivo sulle corde della chitarra, che potrebbe richiamare un’esasperazione della tecnica del dulcimer, ma espressa con vigorie insospettabili da parte del suggestivo cordofono acustico.

Mirrored Memories è una versione più concisa della precedente in studio, da cui sembra differire in parte rinunciando al carattere abbacinante e più metallescente, configurando piuttosto una flottante piattaforma di timbro organistico, che sembra collegarsi più a certe istanze del primo minimalismo, permanendo entro una dimensione impersonale ed onirica.

Ancora più impersonale e di ben maggiore estensione temporale, chiude il programma Far away, Closer, imbastito tra riverberazioni e silenzi d’ascolto (e timbricamente si sono scomodate analogie col mondo di un John Fahey, ad esempio), che lasciano campi aperti alla personale introspezione.

Rifacendoci alle parole introduttive del giovanissimo chitarrista al precedente album, rileviamo “qui il tempo è molto importante: la musica è lenta, semplice, talvolta cruda; può servire come accompagnamento alla vita di tutti i giorni, ma a chi ascolta da vicino può apparire un molto dettagliato mondo di chitarre”; dunque non soltanto il tecnicismo ma più ampiamente la dedizione esplorativa verso il proprio strumento, configura un’interessante revisione dei materiali, per più versi passionale (sia pure in termini diversi dalle nostre concezioni latine) e insomma un ‘refreshing’ a guisa di motivato investimento.

 

Musicisti:

Kasper Agnas, chitarre, laptop

Tracklist:

01. 1992 10:36
02. Mirrored Memories 8:12
03. Far away, Closer 18:38

Link:

FRIM Records

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TIM BERNE & MATT MITCHELL | One More, Please https://www.soundcontest.com/tim-berne-matt-mitchell-one-more-please/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=tim-berne-matt-mitchell-one-more-please Tue, 31 Oct 2023 09:04:23 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=62689 L’essenziale line-up autorizzerebbe l’inclusione del presente lavoro nel sottofilone jazz dei duo pianoforte-ancia, ma vi è il sospetto che le naturali propensioni del contitolare Tim Berne possano condurre a sparigliare le carte delle attese e lanciare “oltre” i termini del dialogo abitualmente inteso. Eppure è eterogenea e polimorfa la suddetta tradizione, che ha già associato […]

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TIM BERNE & MATT MITCHELL
One More, Please
Intakt records CD 395
2022

L’essenziale line-up autorizzerebbe l’inclusione del presente lavoro nel sottofilone jazz dei duo pianoforte-ancia, ma vi è il sospetto che le naturali propensioni del contitolare Tim Berne possano condurre a sparigliare le carte delle attese e lanciare “oltre” i termini del dialogo abitualmente inteso.

Eppure è eterogenea e polimorfa la suddetta tradizione, che ha già associato nel tempo personalità assai diverse,  dall’iconico e storico duo Steve Lacy – Mal Waldron all’eponimo e classico album Duke Ellington & John Coltrane, dall’importante ma forse non memorabile coppia Braxton & Abrahams alle rare ma suggestive esternazioni tra Zawinul e Shorter, e già soltanto in casa Intakt ha collezionato dualità comprendenti Aki Takase-Louis Sclavis, Alexander Hawkins-Angelika Niescier, Kris Davis–Ingrid Laubrock, Aruán Ortiz-Don Byron e via appaiando.

È dunque la volta del sassofonista ed animatore Tim Berne, eminente non solo presso la scena ‘newyorker’ e di turbolenta nomea, passato dopo una fluviale discografia, tra cui alcune produzioni in CleanFeed ed ECM a regolari apparizioni presso la label elvetica, da cui sembra aver ottenuto mano abbastanza libera nell’esternarsi con formazioni differenziate, giungendo ad una formazione sulla carta assai essenziale insieme al pianista e compositore Matt Mitchell, prolifico sideman più volte apprezzato in esperienze discografiche, segnatamente presso Scramble e PiRecordings, e la cui frequentazione s’articola almeno nell’ultimo decennio anche nelle fila nel collettivo Snakeoil.

L’atteso tour de force s’avvia nell’intensa Purdy, a firma di Berne come quasi tutta la sequenza, aperta di fatto con espressioni sensibili e solidamente manierate, per poi innervarsi con vivide energie nel sancire i primi tratti idiomatici del dialogo. Un dominante spirito contemplativo sembra tratteggiare la successiva Number 2, a firma dell’ispirativo mentore Julius Hemphill, transitando con Rose-colored Missive verso la declamazione dai toni bruniti dell’ancia, d’allure avventurosa quanto riflessiva, cedendo inflessioni di ben maggiore dinamismo e grinta esplorativa.

Frizzante verve e brunito metallo nella serrata apertura di Oddly Enough/Squidz, conducente ad intricate quanto distinte linee solistiche, incarnate dalla grandine pianistica e dalle saette del sax, esposte verso l’astrattezza figurativa; non priva di calligrafismo la tastiera in Middle Seat Blues/Chicken Salad Blues, che del grande filone stilistico importa anche pathos e concitazione, segnatamente grazie alla lacerata voce dell’ancia. Ci s’interroga su dove voglia andare a parare un titolo come Motian Sickness, che dello scomparso, sommo batterista armeno-americano non reca il senso dell’orchestrazione quanto i tratti più idiosincratici e spigolosi, entro un brano dalle geometrie sfuggenti ed aguzze; spicca per estensione la conclusiva Rolled Oats/Curls, la cui ampiezza autorizza una scansione in stanze immaginative, di palese senso d’invettiva nella parte centrale e nella conclusiva, ad intervallare passaggi di calda e scultorea discorsività.

La vivace sequenza di “One more, please” è anche gratificata dalle note di copertina del confratello ed illustre garante Django Bates, che sancisce tra l’altro la considerazione, non sorprendente, secondo cui “Con questo duo c’è sempre una possibilità ulteriore, e sempre il coraggio di affrontarla e condurla a termine” anche se forse porremmo un po’ di cautela circa gli “infiniti sviluppi ed interpretazioni cui aprono le porte” le tracce dell’album. Certo, s’impone alla fruizione l’alienità discorsiva e strutturale di Berne, in varie guise assortita o sinergica con la fluente inventiva di Mitchell, che acutamente investe sulle poliedriche incombenza del pianismo contemporaneo, laddove il primo dinamicamente capitalizza quanto dovuto al riconosciuto mentore Julius Hemphill (oltre alla non poche ascendenze dal milieu chicagoano), ma il tandem ulteriormente espande il potenziale in sette passaggi di sviluppo consistente, a più tratti spregiudicato, di spirito e lunare e obliquo tratto (de)costruttivo.

 

Musicisti:

Tim Berne, sax alto
Matt Mitchell, pianoforte

Tracklist:

01. Purdy 5:16
02. Number 2 8:26
03. Rose-colored Missive 7:53
04. Oddly Enough/Squidz 6:56
05. Middle Seat Blues/Chicken Salad Blues 8:07
06. Motian Sickness 3:30
07. Rolled Oats/Curls 11:54

 

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GJERMUND LARSEN TRIO | Tøyen Sessions https://www.soundcontest.com/gjermund-larsen-trio-toyen-sessions/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=gjermund-larsen-trio-toyen-sessions Sat, 14 Oct 2023 10:00:11 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=62451 Tøyen Sessions by Gjermund Larsen TrioUna visione scandinava del folk intesa, come non di rado, con poche ambizioni radicali o re-interpretative: il mondo sereno e lineare del violinista Gjermund Larsen trova argomentazioni e spunti nuovi in un album che suggella la proposta dei singoli del 2019, e finalmente assemblato nel presente “T​ø​yen Sessions”. Trattiamo insomma […]

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GJERMUND LARSEN TRIO
Tøyen Sessions
Heilo / Grappa HCD 7353
2023

Una visione scandinava del folk intesa, come non di rado, con poche ambizioni radicali o re-interpretative: il mondo sereno e lineare del violinista Gjermund Larsen trova argomentazioni e spunti nuovi in un album che suggella la proposta dei singoli del 2019, e finalmente assemblato nel presente “T​ø​yen Sessions”.

Trattiamo insomma di una quinta esperienza discografica per il trio, ricordando una trilogia a partire dal 2006, quindi con maggiorate ambizioni e line-up la prova allargata in “Salmeklang” (2016), in doppio trio acustico, quindi una nuova ripresa in studio presso la Tøyenkirka, ritrovo familiare in quanto sede di prove per la formazione da quasi un ventennio.

L’apparente chiarezza dell’impianto generale potrebbe, sulle prime, far sottostimare il potenziale formativo del giovane violinista, che ha militato con efficacia anche negli ensemble di Christian Wallumr​ød o Arve Henriksen, nondimeno le personali propensioni appaiono investite su una linea espositiva accessibile e calda, che tematicamente si riferisce a momenti del giorno e delle ricorrenze annuali, in uno spirito di pacificazione con la natura e con il mondo che non poco deve, nella scrittura, allo stato di liberazione dalla clausura e i disagi della recente pandemia.

Del resto, il medesimo Larsen impiega espressioni molto semplici per descrivere le proprie attitudini compositive ed estetiche: “Compongo e realizzo schizzi per arrangiamenti a casa, utilizzando violino, pianoforte, organo, violoncello e contrabbasso quando lavoro con la musica, ma solo quando noi tre ci incontriamo i brani assumono la loro forma perfetta: Sondre e Andreas aggiungono moltissimo alla musica, così i miei arrangiamenti sono intesi come punto di partenza con cui giocare. Ritengo che la musica abbia un suo linguaggio, e penso spesso di raccontare storie quando eseguo le mie composizioni. E penso anche che molti degli ascoltatori a loro volta inventino le proprie storie, e che in questo modo si dimentichino per un po’ il tempo e il luogo”.

Stilisticamente, l’insolito violin-trio privo di devices percussivi e poco segnato da speculazioni ritmiche (per quanto pervaso da una morbida e continua pulsazione), palesa una miscela intessuta “anche” sul jazz, ma nell’essenza modellata sul flusso delle ballate popolari, mercé un’esposizione calda, ove lo strumento solista detiene un palese e pressoché continuativo protagonismo, lo strutturato pianoforte oltre alla posizione armonica offre un ruolo di doppiaggio alla linea del violino, ancorato dalla solida cornice del contrabbasso.

Otto misure  narrative coinvolgenti e in apparenza non-problematiche e scevre da polemica, di spirito caldo nell’edificazione di una comfort-zone estetica di spirito domestico, onestamente alieno da ambizioni innovative, ma in ultimo accessibile, argomentato e godibile.

 

Musicisti:

Gjermund Larsen, violino
Andreas Utnem, pianoforte
Sondre Meisfjord, contrabbasso

Tracklist:

01. Morgenslått 5:46
02. Blå 4:01
03. April 5:10
04. Sankthansvals 5:44
05. Avslått 5:09
06. Vintermarsj 5:03
07. Røros 4:34
08. Kveldsvals II 3:41

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LIVIO BARTOLO VARIABLE UNIT | Start from Scratch https://www.soundcontest.com/livio-bartolo-variable-unit-start-from-scratch/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=livio-bartolo-variable-unit-start-from-scratch Mon, 04 Sep 2023 07:29:52 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=61934 Si configura una discografia ormai diversificata per il chitarrista tarantino, già vantante all’incirca una dozzina di incisioni, e non poche con la presente formazione Livio Bartolo Variable Unit, della quale vorremmo ricordare almeno la più recente Don’t Beat a Dead Horse (2020) orientata verso l’evitamento della forma lineare e la predilezione dell’anti-schematismo. Il nuovo album […]

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LIVIO BARTOLO VARIABLE UNIT
Start from Scratch
Dodicilune Ed535
2022

Si configura una discografia ormai diversificata per il chitarrista tarantino, già vantante all’incirca una dozzina di incisioni, e non poche con la presente formazione Livio Bartolo Variable Unit, della quale vorremmo ricordare almeno la più recente Don’t Beat a Dead Horse (2020) orientata verso l’evitamento della forma lineare e la predilezione dell’anti-schematismo.

Il nuovo album “Start from Scratch” (o “ripartenza da zero”) non sembra seguire alla lettera il concetto di riferimento, rilevando anzi, sulle prime, notevoli connessioni formali con l’esperienza precedente, salvo ampliarne il ventaglio stilistico e la gamma di segni di riferimento.

Piuttosto palese una doppia tipologia di formazione dell’animatore, centrata su un curriculum jazz ma anche sull’apertura verso le avanguardie del Novecento, qui più salienti in quanto identificabili a varie riprese nel corso della sequenza, rappresentandone motivi ricorrenti ed influenti.

Non dismessa la lezione di base, appresa da un innovatore del calibro di Henry Threadgill, nella preparazione conferita al lavoro si evidenzia un’appropriazione relativamente spregiudicata di materiali importanti quanto eterogenei e dall’accostamento non certo scontato, già limitandosi ai nomi d’area pop-jazz citati dalle note, passanti da Eric Dolphy a Terje Rypdal.

Ne è un riflesso la successione dei materiali, che già dall’avvio sembrano determinare una disorientante fusione tra sentori bartokiani ed un certo clima neo-prog, poi procedendo con libertà schematiche e soprattutto in agilità ideativa, incorporando intimismi in-acustico, leganti post-romanticismo e visionarietà ‘brit’ d’impronta frippiana, lasciando emergere con teatralità sortite individuali di vivace spirito cameristico.

Vorremmo forse moderare l’entusiasmo del redattore delle note, che tira in ballo non soltanto grandi padri del jazz, ma si spinge ad incomodare i numi della Dodecafonia – ma è pur vero che suggestioni schoenberghiane emanano dalla fisonomia di più passaggi, tra linee spezzate d’arco e voluttuosi momenti danzanti, così come riescono piuttosto identificabili atmosfere lievi e grottesche della stravinskiana Histoire du Soldat (più salienti e concitate tra quarta e la quinta parte).

È noto il senso di sufficienza esplicitato dai praticanti jazz/pop di percussione, nonché di chitarra, nei confronti delle loro controparti del mondo classico/accademico, ma qui le demarcazioni riescono alquanto superate e labili, adattandosi il set di batteria a reincarnare stilemi orchestrali così come a sviluppare autentici quanto inattesi drum-solo (From) e, quanto alle morfologie chitarristiche del leader, lo stesso mostra dimestichezza sia con gli estesi canoni della classicità che con le proteiformi nuove incarnazioni, dal bacino del blues alle ricadute più attuali. Altrettanto vitali per la riuscita d’insieme sia le parti d’arco che i fiati, che guadagnano una diversa dimensione espressiva nella quinta e conclusiva parte (Ending), di relativa catarsi rispetto all’impegnativa regia scrittoria della prime quattro, configura piuttosto un libero laboratorio elettroacustico di ristoro e visionarietà.

Del motivato leader e regista Livio Bartolo vorremmo citare una sintesi delle parole introduttive:

“Questo disco racconta l’evoluzione della mia ricerca intervallare che ho iniziato alcuni anni fa. Durante il primo lockdown pandemico ho avuto molto tempo per pensare e sviluppare nuove strategie nel mio pensiero musicale, concentrandomi su me stesso e osservando la situazione della pandemia mondiale in quel momento.

Ogni lavoro della Unit è basato su un concetto compositivo e improvvisativo differente, ho deciso di darle ogni volta un assetto diverso, provando e sperimentando con diversi musicisti e strumenti. Il sodalizio con tutti i musicisti della Unit è nato casualmente, ritrovandoci in contesti anche non professionali: la cosa che accomuna tutti i musicisti partecipanti è la genuina intenzione di fare musica e spingersi sempre un po’ oltre gli schemi”. 

Rilevando ‘en passant’ un nuovo, ulteriore contributo alla sotto-sezione avant-garde dell’etichetta salentina Dodicilune, la presente incisione in particolare sembra discostarsene in primis in forza dei più labili legami letterali e sintattici con le forme-jazz, palesando una progettualità più articolata che fa propri anche modelli storici, il tutto efficacemente rappresentato dall’eclettismo dell’ensemble.

Quest’ultimo insomma, se non spariglia le carte certamente riformula assetti ed instrumentarium, investendo su rinnovate configurazioni e maggiori diversificazioni di impianto scenico e progressione narrativa; pur senza proterve ambizioni di installarsi spalla a spalla con i massimi rappresentanti dei maggiori filoni della sperimentazione contemporanea (in realtà da identificarsi), il Variable Unit segna coi fatti un punto vincente, segnato da inclinazione radicale, metabolizzazione meta-storica ed espressione proteiforme.

 

Musicisti:

Livio Bartolo, chitarra acustica ed elettrica, direzione
Anais Drago, violino
Francesca Remigi, batteria
Andrea Campanella, clarino basso, clarinetto
Aldo Davide Di Caterino, flauti
Pietro Corbascio, tromba

Tracklist:

1. Part One (Start) 10:16
2. Part Two (From) 8:58
3. Part Three _ A.L.F.F. (Scratch) 7:38
4. Part Four (Scherzo) 5:08
5. Part Five (Ending) 3:26

Link:

Livio Bartolo

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FRED HERSCH & ESPERANZA SPALDING | Alive at the Village Vanguard https://www.soundcontest.com/fred-hersch-esperanza-spalding-alive-at-the-village-vanguard/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=fred-hersch-esperanza-spalding-alive-at-the-village-vanguard Tue, 08 Aug 2023 16:44:28 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=61730 Andando alla più recente memoria sulla produzione individuale dei co-protagonisti della presente incisione rileviamo, nel caso della giovine contrabbassista, vocalist e autrice da Portland Esperanza Spalding, “12 Little Spells” (2018), originale raccolta di brani dedicati a varie parti corporee, quindi “Songwrights Apothecary Lab” (2021), altro curioso programma (realizzato in collaborazione con operatori sanitari e ricercatori) […]

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FRED HERSCH & ESPERANZA SPALDING
Alive at the Village Vanguard
Palmetto records PM2208
2023

Andando alla più recente memoria sulla produzione individuale dei co-protagonisti della presente incisione rileviamo, nel caso della giovine contrabbassista, vocalist e autrice da Portland Esperanza Spalding, “12 Little Spells” (2018), originale raccolta di brani dedicati a varie parti corporee, quindi “Songwrights Apothecary Lab” (2021), altro curioso programma (realizzato in collaborazione con operatori sanitari e ricercatori) di laboratorio itinerante con malcelate ambizioni olistiche se non ‘terapeutiche’, sancite da dodici diversificate tracks accomunate dal neologismo “formwelas”.

Quanto al maturo pianista newyorkese Fred Hersch, lo stesso vanta una duale collaborazione con il veterano Enrico Rava (“The Song is You”, ECM 2022) preceduta nel 2020 dall’album solistico “Songs From Home” (estratto di dieci brani a succinta sintesi della diretta social “Tune a Day”, protratta testimonianza del pianista in reazione allo smarrimento da pandemia) e più a ritroso da “Live in Europe” (2018), più recente saggio della propria maestria nel piano trio.

Tutto ciò non ci prepara comunque più di tanto all’incisione in oggetto, che segna il cimento di due personalità affatto distinte, e non certo per sola pertinenza anagrafica: il Village Vanguard di New York (location regolarmente calcata dal pianista) fu teatro di tre consecutive serate nell’ottobre del 2018, di notevole riscontro di pubblico ma temporaneamente archiviate, per poi esser rapidamente assemblati in forma di sintetico EP di cinque brani, posto in vendita su piattaforma digitale fino al giugno 2020, con tutti i proventi a beneficio della Jazz Foundation of America, insomma a favore della comunità jazz colpita dall’emergenza da Covid-19.

Nel presente “Alive at the Village Vanguard”, selezione definitiva e produttivamente più curata per i solchi di Palmetto records, la presa di contatto con l’inedito duo s’avvia nella gerswiniana But not for Me, e si conferma, come da premesse, un certo grado di sorpresa grazie alla scaltrezza con cui entrambi imbastiscono una sorta d’atmosfera fuori dal tempo, primariamente grazie alla mimesi vocale d’antan di Spalding, laddove le frenetiche esplorazioni alla tastiera di Hersch ci attestano invece della contemporaneità dello spirito interpretativo.

Scanzonato e in apparenza evanescente, Dream of Monk testimonia piuttosto degli aspetti mercuriali della scrittura del pianista, relativamente protagonista del passaggio, intessuto da serrate ma libere esplorazioni alla tastiera; nella parkeriana Little Suede Shoes l’intro pianistico, telegrafico e capriccioso, apre ad un fantasioso scat di Spalding, pervaso di ariosità latina.

D’indubbia centralità spettacolare nell’economia dell’album, Girl Talk disvela non soltanto il consumato talento da entertainment della vocalist, ma peculiarmente la sua verve istrionica ed umoristica, accompagnata dall’inesauribile ventaglio inventivo del pianista, entro un’ammiccante maratona di tangibile coinvolgimento dell’audience (come attesterà il video allegato).

Geometrie irregolari e sfuggenti segnano il tono generale della monkiana Evidence, che sembra persistere sui toni dell’astrattezza e i toni leggeri della voce, per poi strutturarsi grazie alle solide carpenterie, di timbro anticato, del pianoforte; intimismo sensibile e di autunnale tepore caratterizza Some Other Time, passaggio di più definito lirismo nell’economia della raccolta.

A firma di Egberto Gismonti, Loro era già parte di “Junjo”, album d’esordio di Spalding, la cui controparte pianistica era allora un trentenne Aruán Ortiz, di resa più estrosa e spigolosa rispetto all’attuale prestazione di Hersch, che si prodiga in protratti disegni di costruttiva arguzia.

Era invece frutto di una precedente collaborazione tra il pianista e Norma Winstone la conclusiva A Wish, compreso nella raccolta del 2003 “Songs & Lullabies”, e rispetto al clima rarefatto e all’intimismo sobrio della vecchia versione qui riscontriamo un andamento più spedito e tessiture più terse ed informali.

Il cimento inatteso tra due distinti patrimoni stilistici e l’apparente straniamento conferito dal tono generale esita in un evento su cui riflettere in primis per l’ampiezza d’orizzonti esperienziali che il ‘domain’ jazz continua ad esplicitare; quindi, l’apprezzamento per il palese valore della presente presa diretta:  “Abbiamo optato per la parola Alive per il titolo dell’album poiché puoi davvero sentire l’intimità e l’energia delle esibizioni: si può davvero avvertire la vitalità del locale, del pubblico e della nostra interazione“, secondo le parole dei co-protagonisti.

“Alive at the Village Vanguard” nella resa finale implementa la versatilità e la caratura individuale di Esperanza Spalding (la quale, notiamo en passant, preferisce la dizione a tutte minuscole del proprio nome), rinsaldando il poco sorprendente magistero pianistico ed inventivo del veterano Fred Hersch, ma nel suo complesso ed in virtù dei molteplici stati dimensionali della performance (e non poco grazie ai peculiari tratti di fine artigianato della medesima) s’installa quale esperienza sorprendente, da rivalutare e apprezzare in forma rinnovata al riascolto.

 

Musicisti:

Fred Hersch, pianoforte
Esperanza Spalding, voce

Tracklist :

01. But Not for Me (George Gershwin, Ira Gershwin) 9:32
02. Dream of Monk (Fred Hersch) 7:36
03. Little Suede Shoes (Charlie Parker) 9:03
04. Girl Talk (Bobby Troup, Neal Hefti) 12:03
05. Evidence (Thelonious Monk) 6:35
06. Some Other Time (Jule Styne, Sammy Cahn) 8:29
07. Loro (Egberto Gismonti) 9:37
08. A Wish (Fred Hersch, Norma Winstone) 4:35

Link:

Esperanza Spalding
Fred Hersch

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MITELLI – EDWARDS – SANDERS | Three Tsuru Origami https://www.soundcontest.com/mitelli-edwards-sanders-three-tsuru-origami/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=mitelli-edwards-sanders-three-tsuru-origami Sat, 20 May 2023 17:11:48 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=60702 Three tsuru origami by Gabriele Mitelli, John Edwards, Mark Sanders“Animali fantastici e dove trovarli”: per quanto attiene al presente programma, ciò che ‘troviamo’ consiste almeno in ‘sei storie dedicate a straordinari uccelli’ e  (fatti salvi i copyrights rowlinghiani)  anche il sortilegio non riesce del tutto estraneo alle alchimie del laboratorio italo-britannico associante il trombettista bresciano […]

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MITELLI – EDWARDS – SANDERS
Three Tsuru Origami
WeInsist ! records
2022

“Animali fantastici e dove trovarli”: per quanto attiene al presente programma, ciò che ‘troviamo’ consiste almeno in ‘sei storie dedicate a straordinari uccelli’ e  (fatti salvi i copyrights rowlinghiani)  anche il sortilegio non riesce del tutto estraneo alle alchimie del laboratorio italo-britannico associante il trombettista bresciano Gabriele Mitelli (estese collaborazioni  comprendenti Wayne Horvitz, Alexander Hawkins, Ken Vandermark etc. ) e due agitatori esperiti e tuttora motivati dell’arena anglo-free quali il batterista Mark Sanders ed il contrabbassista  John Edwards (titolati nelle orbite creative di Evan Parker, Wadada Leo Smith, Roscoe Mitchell o Peter Brötzmann), esitando in un programma che della forma libera e della ‘creative music’ incarna diverse traiettorie ed istanze.

Non vi sono estranee anche ragioni e considerazioni etiche di fondo, come suggerite da Mitelli nelle note introduttive: “Tutto ciò che è diverso, viene accolto con sospetto e tenuto a distanza; l’ispirazione e l’atto creativo vengono da lontano, da un mondo sconosciuto, e per arrivare a noi devono attraversare un lungo processo di migrazione e integrazione. Il trambusto del mondo appiattisce la curiosità di esplorare l’esperienza di ciò che viene dall’altrove e attiva meccanismi di distacco emotivo che portano a valutare l’impresa della migrazione come un meschino atto di conquista.

E se queste migrazioni si trasformassero da fatti di cronaca in leggende e atti eroici? La risposta non è contenuta nella mia musica, ma vi è dentro la speranza che le migrazioni, di ogni genere e creatura, possano essere scritte e raccontate come grandi epopee moderne, leggende contemporanee, nuove avventure popolari che infrangano la paura degli sbarchi per far posto all’arrivo del nostro eroe preferito”.

Insomma, consistenti disposizioni rappresentative per un programma aprente in New One, a firma di Sean Bergin e reinterpretata con una forma ‘tradizionalmente’ free, che sembra evocare gli spiriti (-guida?) di Ornette Coleman nelle dominanti frenesie e Don Cherry nel clima ebbro e spiritato.

I Nostri agguantano la griffe autoriale per quasi tutta la rimanente sequenza, transitando verso le onomatopee di The Eagle and the Hawk, il cui vivace spirito ‘animalista’ viene suggestivamente reso da brucianti elettroniche ed urticanti esternazioni a corde basse; trame serrate e cospirative suonano dominanti nella spedita Go Godwit Go, segnata dal timbro sornione ed ammiccante della cornetta e dall’istinto plastico degli strumenti  (non strettamente) ritmici, mentre la dedicataria Fly Away (to Pier Combini) registra modulate invettive d’ottone, guizzi di contrabbasso e discreto lavorìo di scalpello percussivo, oltre ad inserti vocali di colore e misticismo africanista.

Karma sembra riproporre ingredienti espressivi del brano di partenza, compresi i relativi spiriti di riferimento, quindi l’eponima Three Tsuru Origami spicca per ariosità ed aperta destrutturazione, con chiara decantazione delle complessive tensioni, che catarticamente sembrano aggregarsi ed innervarsi verso il finale.

Di grandi suggestioni tematiche il titolo The Indian Geese and Himalaya, volo di grande altura tradotto nell’elaborazione di passo lento e nelle frenesie sottili del passaggio, quindi Green Lake, Black Bird, altro titolo naturalistico,  è abitato da un sapido opificio elettronico-percussivo di libera e godibile dimensione ludica, segnando l’epilogo della performance in Ritual, Part 3 (ripresa del provocatorio brano elettroacustico della Fire! Orchestra) , invece pervaso da tese connotazioni metropolitane e di rivolta.

Riesce insomma piuttosto completa l’alternanza tematica così come tangibile la forma della terna in gioco, e non discorderemmo dalla presentazione, che riferisce di  “tre improvvisatori che si divertono e riconoscono nel rischio: il classico trio jazz senza pianoforte reinventato miscelando melodie, suoni sporchi, rumori, tecniche estese e riferimenti alla tradizione con un approccio quasi-punk”, e così ci si congeda dal trio Mitelli-Edwards-Sanders, abili nel condensare con felice esito, come già si diceva, assortite argomentazioni creative ed allegoriche, oltre ad attuali istanze politiche.

 

Musicisti:

Gabriele Mitelli, tromba, sax soprano, elettroniche, voce
John Edwards, contrabbasso
Mark Sanders, batteria, oggetti

Tracklist:

01. New One 4:31
02. The Eagle and the Hawk 4:23
03. Go Godwit Go 3:30
04. Fly Away 4:35
05. Karma 3:46 6. Three Tsuru Origami  4:45
06. The Indian Geese and Himalaya 5:07
07. Green Lake, Black Bird 2:56
08. Ritual Part 3 6:22

Link:

Gabriele Militelli

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ALEXANDER HAWKINS TRIO | Carnival Celestial https://www.soundcontest.com/alexander-hawkins-trio-carnival-celestial/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=alexander-hawkins-trio-carnival-celestial Wed, 03 May 2023 17:54:13 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=60494 Carnival Celestial (24bit Hi-Res 48khz) by ALEXANDER HAWKINS TRIO with Neil Charles and Stephen DavisLa mela (come talvolta si dice) può rotolare molto lontano dall’albero e, nel corso del rotolamento, può riportarne tracce, se non mutazioni drastiche quando non irreversibili. Dalla terra di Newton (non certo ignara di mele, tanto meno di cose “rotolanti”) un […]

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ALEXANDER HAWKINS TRIO
Carnival Celestial
Intakt records CD 398
2023

La mela (come talvolta si dice) può rotolare molto lontano dall’albero e, nel corso del rotolamento, può riportarne tracce, se non mutazioni drastiche quando non irreversibili.

Dalla terra di Newton (non certo ignara di mele, tanto meno di cose “rotolanti”) un saggio sulla trasmutazione del piano-trio che, a partire dal primo brano, può incappare in una imponente metamorfosi: Rapture, in effetti, può configurarsi come un non-luogo dominato da un anti-soundscape a base di brucianti, effervescenti elettroniche dall’anarchica tessitura, che lascia filtrare ossute sonorità di contrabbasso, schegge percussive e vibrazioni di corde pianistiche.

Il gusto per l’astrattezza, e relativa gestione, non può certo difettare nella creatività multiforme di un artista quale Alexander Hawkins, già convincente militante di varie espressioni del free, particolarmente diremmo entro le speculazioni di una formazione ‘avant’ quale il notevole Convergence quartet, ma anche a ragione di ciò non è definitivo che la forma-trio non sia in qualche guisa recuperabile.

Cosicché il successivo Puzzle Canon, dalla fisionomia energica e ‘thriller’, è passaggio di energie incalzanti per la terna di attori, disvelanti come chiaroscurale sensibilità e idiosincrasica disciplina sono rilevabili tra le connotazioni della più nuova esternazione in trio del pianista britannico, che attinge a bronzee densità della tastiera, in mobile interazione con un drumming serrato e scintillante ed un robusto legante a corde basse.

Fuga, the Fast One, ci ricolloca ulteriormente in relazione alla formula-trio, riesposta con le fisionomie appena descritte, transitando nei ben differenti umori e tratteggi dell’ondulante Canon Celestial, d’incedere grottesco e mood provocatorio e sfuggente. Quasi omonima del brano d’apertura, Rupture di questo riprende il carattere fortemente destrutturato, ma formalmente ben distinto ed eminentemente in-acustico, ed improntato da sonorità forti e sontuose.

Nervoso e fitto interplay nelle coinvolgenti intensità free della vissuta Sarabande Celestial, richiamante le collettive forze scultoree, di tratto ed energie ben distinti rispetto alla successiva Unlimited Growth Increases the Divide, d’incedere riflessivo e sghemba solennità, primo dei due titoli  con cui si tirano in ballo, con caustica ironia,  emergenze sociali. S’avvicenda infatti If Nature Were a Bank, They Would Have Saved It Already,  dalla telegrafica pulsazione e dal tratto allarmante, segnata da una ritmica plastica e da evocativi languori elettroacustici, entro uno spirito fusion parzialmente alieno.

La già implicata dimensione del ‘celestiale’ trova nel finale una terna di titoli, ripartente dalla titolante Carnival Celestial, di tempra fremente ed erratica ritmica, puntando a più ambiziose mire compositive in un passaggio quale Counterpoint Celestial, in cui la settecentesca formula riesce drammaticamente trasfigurata entro una temperie espressionista da ventesimo secolo, che via via s’innesta verso la formula jazz di base.

Giunge l’epilogo nei metallescenti rovesci in apertura di Echo Celestial,  che improntano la destrutturazione brillante di un passaggio non privo di fluorescenze e livida luce. Il medesimo pianista non ha esitato a chiarirci su diversi punti del backstage, e ne riportiamo un estratto in riferimento al titolo:

Circa l’impiego dell’aggettivo  “Celestial” , è qualcosa di molto astratto. In realtà l’idea è nata quando una volta stavo cercando di suggerire una possibile ‘sensazione’ da provare durante le prove… stavamo provando quella che sarebbe diventata la nona traccia, e ho suggerito di immaginarne il titolo come “Carnival Celestial” : suppongo fosse un modo per ottenere la cadenza sincopata, cercando allo stesso tempo di tenerlo scostato da qualcosa di troppo tradizionale! E le altre tracce recanti il titolo “Celestial” derivano da quello – e hanno qualche relazione con i movimenti di danza a cui a volte fanno riferimento, anche se questo è molto tenue o altrimenti oscurato!

Nuova, ed ulteriore dunque, messa in gioco del pianismo hawkinsiano, che le note di copertina apparentano, con ben ammissibili argomentazioni, alle distinte creatività di un Cecil Taylor o un Paul Bley, ma dalle ambizioni formali evidentemente ben aperte e trans-strumentali, come testimoniano i vari e differenziati investimenti non soltanto sul piano solo ma anche nelle prove in duo, non meno in formazione espansa come nel recente e notevole Togetherness Music, non potendosi omettere l’influente imprinting braxtoniano (il trio si era già prodotto con il sommo chicagoano nel corposo Anthony Braxton’s Standards Quartet), e che torna su questa formula dopo una stagionata esperienza dell’Alexander Hawkins trio (del 2015), e sulle cui implicazioni ci congediamo ancora con le dirette parole del Nostro: “Direi che la specifica formazione di quest’album sia stata determinante, infatti ho scritto molto pensando a Neil e Steve, piuttosto che a una concezione astratta di “pianoforte-basso-batteria”. Questo non vuol dire che la musica non possa essere eseguita con altri – certo che potrebbe, e i risultati potrebbero essere davvero molto interessanti! Ma il punto è che la mia attenzione stava sui comportamenti di noi tre come musicisti, piuttosto che sugli strumenti in quanto tali – e in parte è forse questo che ci permette di esplorare territori non sempre tipici del trio con pianoforte . Un atteggiamento che permetta di sfuggire ad un modo di pensare che è semplicemente il prendere in prestito modelli esistenti – cosa che, sono sicuro, altre persone possano fare molto meglio di me. Un punto secondario qui è la strumentazione: poiché anche se al centro delle cose c’è ancora piano-basso-batteria, io faccio uso anche di un synth e di un campionatore, e Neil contribuisce in alcuni punti anche con le percussioni. Quindi, anche se l’uso dell’elettronica è in generale piuttosto sottile, l’ascoltatore percepisce in vari momenti più di tre strumenti che suonano: sicuramente qualcosa che penso aiuti a sfuggire al “bagaglio” del trio con pianoforte, che giova a noi musicisti, così come agli ascoltatori”.

Musicisti:

Alexander Hawkins: pianoforte, synth, sampler, percussioni
Neil Charles: contrabbasso, percussioni
Stephen Davis: batteria, percussioni

Tracklist:

01. Rapture 5:27
02. Puzzle Canon 06:32
03. Fuga, the Fast 4:54
04. Canon Celestial 3:17
05. Rupture 4:52
06. Sarabande Celestial 5:32
07. Unlimited Growth Increases the Divide 5:03
08. If Nature Were a Bank, They Would Have Saved It Already 2:50
09. Carnival Celestial 6:22
10. Counterpoint Celestial 6:50
11. Echo Celestial 4:40

Link:

Alexander Hawkins

Intakt Records

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SERGIO ARMAROLI | Vibraphone solo in four part(s) https://www.soundcontest.com/sergio-armaroli-vibraphone-solo-in-four-parts/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=sergio-armaroli-vibraphone-solo-in-four-parts Thu, 06 Apr 2023 07:00:54 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=60112 “Euritmia del possibile” e ancora “campo armonico cangiante, in movimento: probabile, immaginario”: potremmo ritenere quanto sopra espressioni pittoresche nonché eccentriche, non fosse che possiamo considerarci avvezzi alla fluviale capacità discorsiva del vibrafonista, esteta, autore ed insomma artista plurimediale Sergio Armaroli. A seguire una già nutrita serie di produzioni, ed in contemporanea ad ulteriori novità, peraltro […]

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SERGIO ARMAROLI
Vibraphone solo in four part(s)
Dodicilune dischi Ed 536
2023

“Euritmia del possibile” e ancora “campo armonico cangiante, in movimento: probabile, immaginario”: potremmo ritenere quanto sopra espressioni pittoresche nonché eccentriche, non fosse che possiamo considerarci avvezzi alla fluviale capacità discorsiva del vibrafonista, esteta, autore ed insomma artista plurimediale Sergio Armaroli.

A seguire una già nutrita serie di produzioni, ed in contemporanea ad ulteriori novità, peraltro molto diversificate, il presente “Vibraphone solo in four part(s)” lo vede per la prima volta concentrato sul proprio strumento a lamine, cui devolve una sorta di riflessione (se non di saggio), ed in cui non potremmo escludere anche una componente confessionale. “Il solo è anche una dimensione confessionale, di confessione ed introspezione, e per questo motivo chiedo una grande disponibilità e pazienza da parte dell’ascoltatore che è complice di questa mia solitudine e urgenza” come apprendiamo dal concorde commento di Armaroli.

Inoltre: “Un album in solo nasce sempre da una necessità molto personale, intima e privatissima; soprattutto dopo una ricerca più che ventennale attraverso e con il vibrafono, lo strumento che mi ha accompagnato in tutti questi anni e che meritava un focus speciale, un punto d’arrivo o meglio: un approdo momentaneo. Così nell’aprile passato, dopo un lungo periodo di studio e di solitudine, mi sono ritagliato una giornata solo per me con il mio vibrafono e nient’altro, quasi in un voler ‘mettersi alla prova’ – una prova di contatto e non di bravura s’intende, una prova di esistenza concreta e reale invece, partendo da una domanda fondamentale, dimenticando così tutto ciò che si è imparato nel tempo e semplicemente ‘stando’ con il proprio strumento: in solitudine”.

La quadripartita sequenza apre su un esteso passaggio (che da solo avrebbe conferito contenuto e ragioni ad un lato di un vecchio LP), per il quale le dimensioni introspettiva e confessionale, come nelle premesse, sembrerebbero calzanti ma non esaustive nel connotare tratti più estensivi e quanto meno polistilistici lungo una fluente esternazione idiomaticamente affrancata dai rigori rispetto ad un inquadrabile canone formale. È piuttosto al jazz ‘stricto sensu’, oltre che in parte old-fashioned, che penseremmo nella fruizione del secondo passaggio (#2), increspato da gorghi ritmicamente animati e spesso di tratto swingante. In parte sulla falsariga del precedente si articola il terzo passaggio (#3, o nuovamente anonimo) di passo più trattenuto ed in apparenza segnato da più ‘impasses’ di progressione, quasi una sessione onirica agitante.

Ancora di grande estensione il quarto e conclusivo passaggio (#4), aprente su una materia più acquea ma aggregantesi su trama aperta e con incedere ondivago, tornando a suggerire uno dei caratteri discorsivi e figurativi del Nostro quali la dimensione labirintica.

Dovessimo ricercare nella discografia all’incirca contemporanea una qualche analogia, il primo ricorso andrebbe pressoché naturalmente al ponderoso album “Maquishti” della vedette Patricia Brennan, ma se ne rileverebbero soluzioni ben distintive, e se nel più esteso programma della solista messicana predomina la diversificazione di mood, servita da ricerca nella coloristica spettacolarità, fino ad artifici elettronici, è palese e dominante nella prova in solo dell’artista milanese una dominante austerità e un differente investimento artigianale nel cimento con lo strumento, eminentemente auto-centrico e investente (come nelle note) su un articolato dialogo interiore, non potendosi escludere implicazioni, oltre che confessionali, auto-disciplinari ed auto-analitiche.

Ed è nei sensi di quest’ultima grande, anzi sterminata cultura che ancora torniamo alla dimensione del labirinto, di nuovo nelle parole di Sergio Armaroli: “Labirintico come conseguenza di un intrecciarsi di pensieri, atti, gesti… ma confesso anche di perdermi spesso nel labirinto, trovando soluzioni possibili anche se non credo di essere andato oltre un istinto che mi ha sempre accompagnato dall’inizio, unito a un piacere della ricerca e della scoperta dentro e con il suono. L’uscita dal labirinto è forse la soluzione, sempre rimandata ma attesa come uno stato quasi miracoloso di illuminazione sonora e spirituale. Per ritornare sempre a una dimensione più quieta, ragionevole, borghese come questa nostra conversazione … e la soluzione, se vuoi, è l’ascolto e il riconoscersi nel dialogo.”

 

Musicisti:

Sergio Armaroli, vibrafono

Tracklist:

01. Vibraphone solo in four part | #1
02. Vibraphone solo in four part | #2
03. Vibraphone solo in four part | #3
04. Vibraphone solo in four part | #4

Link:

Sergio Armaroli

Dodicilune Dischi

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