Interviste Archivi - Sound Contest https://www.soundcontest.com/category/interviste/ Musica e altri linguaggi Sun, 21 Jan 2024 18:45:10 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.1 CLASSICA ORCHESTRA AFROBEAT | Il jazz che fa il giro del mondo https://www.soundcontest.com/classica-orchestra-afrobeat-il-jazz-che-fa-il-giro-del-mondo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=classica-orchestra-afrobeat-il-jazz-che-fa-il-giro-del-mondo Sun, 21 Jan 2024 18:33:49 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63647 Un disco come “Circles” promette di tornare all’uomo e alla sua origine spirituale. Promette e ci riesce dentro i ricami di suoni acustici e ancestrali che arrivano spesso da zone del mondo lontane anni luce. Marco Zanotti e il suo collettivo apolide ha fatto un lavoro magistrale in questo disco che ospita anche la preziosa […]

L'articolo CLASSICA ORCHESTRA AFROBEAT | Il jazz che fa il giro del mondo proviene da Sound Contest.

]]>
Un disco come “Circles” promette di tornare all’uomo e alla sua origine spirituale. Promette e ci riesce dentro i ricami di suoni acustici e ancestrali che arrivano spesso da zone del mondo lontane anni luce. Marco Zanotti e il suo collettivo apolide ha fatto un lavoro magistrale in questo disco che ospita anche la preziosa voce di Rokia Traoré, una delle più importanti artiste africane nel brano “Ka munu munu”. E poi strumenti antichi, tradizioni, scritture perdute nel tempo e nella distrazioni dell’industrializzazione potente… si torna anche alla ritualità, lo dicono le percussioni di Zanotti, lo dice una certa scrittura che al Jazz chiede moltissimo. “Circles” è un disco da esperire in silenzio…

 

Un disco che culla il concetto della diversità. Non solo altre culture ma anche altro modo di pensare al suono e alla forma. Che parte di mondo avete esplorato per questo lavoro?
Pur non essendo un lavoro specifico su una tradizione musicale o un’area geografica, ci sono alcuni riferimenti sonori e musicali più appariscenti. Ad esempio l’uso dei lamellofoni come la mbira e la sanza ci porta ad una musica circolare presente in varie tradizioni dell’Africa Centrale e Meridionale, soprattutto in Zimbabwe, da cui proviene l’unico brano dell’album non nostro. E poi ci sono i sabar degli Wolof del Senegal, qualche accenno alla musica copta etiope nel brano che parla del massacro di Debra Libanos, i gnawa del Marocco del sud, eccetera.

 

 

Registrazione e produzione? Avete usato tecniche e strumenti che arrivano da quelle culture?

In parte si, ad esempio le mbire e le sanze, per il resto la cifra stilistica della COA resta il suono dell’orchestra da camera, con archi, legni e con il clavicembalo che dà una connotazione barocca. Il più possibile registrati in ensemble, grazie alle maestria di Andrea Scardovi, deux ex machina di tutti i nostri lavori. Poi c’è un intruso: uno strumento elettroacustico creato da un artigiano sardo, Massimo Olla, che usiamo in vari brani di Circles, assemblato con molle e barre filettate. Tanto per restare in tema metallo e upcycle…

Il risultato lo trovo molto occidentalizzato se mi concedi il termine. La pasta sonora sembra accomodarsi nelle abitudini moderne. O sbaglio?

È sicuramente un ibrido, per certi versi è l’album meno “africano” che abbiamo registrato, ma attenzione a non cadere nella vecchia ed imperitura logica coloniale: l’Africa ha un movimento afrofuturista e d’avanguardia di tutto rispetto, da cui l’Occidente prende a piene mani. Che cosa resterebbe delle “abitudini occidentali moderne” se togliessimo l’influenza secolare dell’arte africana? Penso al jazz, al minimalismo, alla tecnho e alla trap.

Se è vero che il concetto di circolarità è universale e trasversale è altrettanto vero che in Africa resistono più che in altre parti del mondo quelle dinamiche circolari che si applicano sia alla musica che alla vita sociale o alla filosofia.

Dal 15 al 21 gennaio Marco Zanotti è anche ospite del programma radiofonico Trans Europe Express a cura di Paolo Tocco.

Eccovi la chiacchierata (solo voce) disponibile da oggi su Spotify

 

Il vinile invece? Che rapporto ha questa musica, la vostra musica con questo supporto?

Il vinile è tondo e gira! A parte le battute, io personalmente sono un vinilofilo da sempre soprattutto per un motivo: quando ascolti un LP ti prendi il tempo per farlo, c’è una sorta di rispetto verso quello che il vinile rappresenta, cioè la musica ed il lavoro che ci sta dietro. In antitesi alla musica da sottofondo, quella delle playlist di Spotify.

E poi anche Spotify e il futuro… anche questo passaggio non me lo sarei atteso…

In che senso? Intendi il fatto che i nostri album si trovano anche su Spotify? Lo so, è un argomento spigoloso ma considera che già è difficile farci notare, in un paese ai margini della world music e per di più senza finanziamenti nè sponsor. La distribuzione digitale non è quasi mai giusta nel riconoscere all’artista il suo lavoro ma ormai è indispensabile se non vuoi definitivamente sparire dai radar. In ogni caso, non siamo certo noi che foraggiamo quel sistema… Il futuro? E dove vogliamo guardare altrimenti? Chiediamolo ai ragazzi di oggi.

 

L'articolo CLASSICA ORCHESTRA AFROBEAT | Il jazz che fa il giro del mondo proviene da Sound Contest.

]]>
FAT HONEY | E’ tutto “Grasso che cola” https://www.soundcontest.com/fat-honey-e-tutto-grasso-che-cola/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=fat-honey-e-tutto-grasso-che-cola Sat, 13 Jan 2024 11:35:28 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63531 Alla frontiera solo tanta gustosa e imprevedibile contaminazione. Il jazz incontra l’elettronica e assieme fanno bisboccia con quel modo trap e rap di pensare alla narrazione, tra sfoghi metropolitani e un sax che avvolge di eleganza e di trasgressione. Sono i Fat Honey e questo lavoro dal titolo “Grasso che cola” sfoggia un giallo acceso, […]

L'articolo FAT HONEY | E’ tutto “Grasso che cola” proviene da Sound Contest.

]]>
Alla frontiera solo tanta gustosa e imprevedibile contaminazione. Il jazz incontra l’elettronica e assieme fanno bisboccia con quel modo trap e rap di pensare alla narrazione, tra sfoghi metropolitani e un sax che avvolge di eleganza e di trasgressione. Sono i Fat Honey e questo lavoro dal titolo “Grasso che cola” sfoggia un giallo acceso, tra la dolcezza del miele e le eccentriche trovate shocking già dall’immagine che ci regalano, figuriamoci nel suono. Adolescenti mai cresciuti o forse molto più che adulti nel saper prendere la vita con scanzonata leggerezza e ironia dissacrante alla base. Il tutto in un suono principalmente live che sembra essere una prosecuzione moderna di quel filone che il buon Davis aveva ampiamente sdoganato. Anche se, a detta loro, le radici sono altre…

 

 

Disco impegnativo, arrangiamenti davvero in bilico tra jazz e futuro. Quanto spazio ha l’improvvisazione?

Grazie! L’improvvisazione conta molto per quanto riguarda il sassofono e, in generale, la fase compositiva, poi tendiamo a strutturare il tutto. Abbiamo studiato il jazz, è la nostra formazione “scolastica”, almeno per qualcuno di noi, e ci piace lasciare un margine di imprevisto, di – appunto – improvvisazione in quello che facciamo.

E che tipo di jazz entra dentro questa produzione?

Quello più contaminato dal funk e dal soul, e quello che sta in un certo tipo di musica hip-hop. Parlando di “jazz” ci piace Chris Potter, Dave Holland, Thelonious Monk…

La voce è anche protagonista di un bel lavoro di mix o sbaglio? Perché questa dimensione “megafonica”?

È una scelta del sapiente Poddighe Studio, a cui ci siamo rivolti per questa prima nostra produzione.

E il funk anni ’80 ha anche un ruolo soprattutto nei suoni di basso o sbaglio?

Questo perché il funk scorre potente in Mr. B. Un riferimento, fra i tanti, è Bootsy e la P-Funk.

Il gioco nelle liriche, prendersi gioco del sistema, dei modi di dire… prendersi gioco è un punto centrale?

Se ci fossimo presi troppo sul serio non saremmo arrivati fino a qui. Scherzi a parte, Gnocchi e Teocoli.

L'articolo FAT HONEY | E’ tutto “Grasso che cola” proviene da Sound Contest.

]]>
DONATO PITOIA | “Sud Experience” sinonimo di democrazia e libertà nel nome di Giustino Fortunato https://www.soundcontest.com/donato-pitoia-sud-experience-sinonimo-di-democrazia-e-liberta-nel-nome-di-giustino-fortunato/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=donato-pitoia-sud-experience-sinonimo-di-democrazia-e-liberta-nel-nome-di-giustino-fortunato Tue, 19 Dec 2023 11:19:49 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63256 Chitarrista e compositore ardimentoso, sempre mosso da una viva curiosità artistica, Donato Pitoia è un musicista dal fulgido talento. Grazie alle sue spiccate doti si esibisce non solo in tutta Italia, ma anche all’estero in Paesi come Polonia, Spagna, Marocco, Francia. La sua fertile vena compositiva lo vede protagonista in qualità di autore di importanti […]

L'articolo DONATO PITOIA | “Sud Experience” sinonimo di democrazia e libertà nel nome di Giustino Fortunato proviene da Sound Contest.

]]>
Chitarrista e compositore ardimentoso, sempre mosso da una viva curiosità artistica, Donato Pitoia è un musicista dal fulgido talento. Grazie alle sue spiccate doti si esibisce non solo in tutta Italia, ma anche all’estero in Paesi come Polonia, Spagna, Marocco, Francia. La sua fertile vena compositiva lo vede protagonista in qualità di autore di importanti colonne sonore, come quella del pluripremiato cortometraggio “Bellafronte” di Andrea Valentino e Rosario D’Angelo. Particolarmente attivo e apprezzato anche in veste di didatta, è impegnato nel ruolo di direttore artistico di prestigiosi festival come “Different Train” e Sud Experience – Festival delle Arti, giunto alla seconda edizione. Proprio questa rassegna a ingresso gratuito, patrocinata dall’Amministrazione Comunale di Rionero in Vulture (provincia di Potenza) e organizzata dal centro culturale Visioni Urbane di cui lui è presidente del comitato di gestione, inizierà il 27 dicembre per terminare il 30 dicembre. Sud Experience è un ricco contenitore culturale, festival dedicato a uno fra i più grandi esponenti del Meridionalismo come Giustino Fortunato, concepito nel segno della letteratura, storia, politica, fotografia e musica, dove il tema sempre attuale e delicato dell’immigrazione è posto al centro di questo evento.

 

“Sud Experience – Festival delle Arti” è giunto alla seconda edizione. Quali sono le sostanziali analogie e quali le differenze rispetto alla prima edizione?

“Sud Experience” è un festival delle arti dedicato alla figura di Giustino Fortunato, patrocinato dal Comune di Rionero in Vulture e ospitato da Visioni Urbane, uno dei più attivi centri culturali della zona. Tutto questo rimane una costante, come pure analoga è la struttura del festival, pensata per esprimere il tema al centro della rassegna attraverso le arti: dalla musica alla letteratura, dalla storia alla fotografia. Ovviamente ogni edizione ruota attorno ad un topic differente. In quella precedente è stato scelto “Il Sud del Mondo” per valorizzare e rielaborare proprio il concetto di Sud nella sua più ampia accezione. Per farlo si è  deciso di coinvolgere i ragazzi delle scuole e in  particolare dell’istituto “I.I.S. Giustino Fortunato” di Rionero che, nei mesi precedenti al festival, hanno  partecipato a laboratori di fotografia, scrittura creativa e musica, durante cui sono stati aiutati da validi docenti che hanno valorizzato la loro creatività e potenzialità guidandoli nella produzione, rispettivamente, di una mostra fotografica, di testi rielaborati e prodotti in forma di podcast e di un’esibizione in concerto. Per la parte musicale del festival, invece, si è scelto di coinvolgere gruppi indie- pop – rock della scena romana. In questa edizione l’attenzione è stata focalizzata sul tema dell’immigrazione mirando ad esaltare gli aspetti positivi del fenomeno sempre attraverso le arti. In particolare, questa vedrà protagoniste “Rotte. Migranti fra  Terra e Mare”, una mostra fotografica a cura di  Michele Amoruso, Giuseppe Carotenuto, Alessio Paduano e  Roberto Salomone,  “Politica e Società – Storie di Immigrazione”, una parte prettamente letteraria, in cui Piero Di Sena dialogherà con Alessandro Agosta (Università della Tuscia) e Giovanni Ferrarese (ISMed CNR e Università di Salerno), mentre Mimmo Lucano (ex sindaco di Riace, ndr) argomenterà con Nancy Porsia (giornalista e producer) e Donato Di Sanzo (ISMed CNR), moderati da Antonella Gravinese, oltre ai concerti per la  parte musicale. Proprio per quanto riguarda l’aspetto musicale sono stati coinvolti artisti che si distinguono sulla scena internazionale: Achille Succi, Daniele D’Alessandro, Dudu Kouatè, Ashti Adbo, Angelo Manicone, Domenico Saccente, Nico Andrulli, Francesco D’Alessandro ed io. Si sono aperte le porte di “Visioni Urbane” per ospitarli e organizzare una residenza artistica che dà agli artisti la possibilità di unire le forze e le idee, di immergersi totalmente nella ricerca e nella produzione, rimanendo a stretto contatto, sperimentando fianco a fianco, contaminandosi e dedicandosi completamente alla creazione artistica.  Anche durante le sessioni di registrazione, finalizzate alla produzione di un disco, saranno aperte al pubblico le porte della residenza, che culminerà nei concerti e nelle live performance finali, previste nelle serate del 29 e del 30 dicembre.

L’obiettivo principale della rassegna è quello di valorizzare letteratura, storia, politica, fotografia e musica e di divulgare un messaggio d’inclusione sociale?

Assolutamente sì.  Il festival vuole anche far passare un messaggio diverso, lontano dalla comune propaganda: l’arte, il dialogo, la musica e l’improvvisazione sono esempi tangibili di democrazia e libertà. Permettono concretamente di vedere e sentire realizzato ciò che nella società sembra essere ancora oggi un’utopia: collaborazione, uguaglianza, possibilità di esprimere democraticamente e liberamente le proprie idee, al di là di ogni confine. Inoltre, si propone di evidenziare quanto siano fondamentali l’apertura, lo scambio e la contaminazione per la crescita              e lo sviluppo di ogni comunità.

Venendo alla musica, cuore pulsante dell’evento, tu sarai protagonista insieme ad altri otto straordinari musicisti da te già citati: Ashti Adbo (voce, fiati e strumenti a corde), Dudu Kouatè (voce e percussioni), Achille Succi (clarinetto e sax), Angelo Manicone (sax e fiati), Daniele D’Alessandro (clarinetto e tastiere), Domenico ​ Saccente (fisarmonica e pianoforte), Nico Andrulli (basso) e Francesco D’Alessandro (batteria), ossia l’Orchestra delle Radici. Qual è il mood e quale la cifra stilistica di questa formazione?

L’obiettivo è quello di creare un viaggio sonoro attraverso varie culture musicali del mondo. Perciò la scelta è ricaduta su artisti che, oltre a essere grandissimi compositori ed improvvisatori, sono anche rappresentativi di diverse culture e generi. L’idea è quella di creare un’orchestra che, prendendo spunto dalle musiche del mondo, possa rinnovarle e accrescerle con ispirazioni ed intuizioni improvvisative.

Fra i tanti ospiti spicca la presenza di Mimmo Lucano, noto attivista, politico ed ex sindaco di Riace. La sua partecipazione rappresenta un valore aggiunto per l’intero festival?

Certo, soprattutto per il suo approccio nella gestione di rifugiati politici e immigrati nel contesto della delicata crisi europea dei migranti.

La rassegna sarà a ingresso gratuito. Questa decisione di offrire gratuitamente a tutti quattro giornate all’insegna della cultura a 360 gradi nasce da una particolare esigenza?

Sì, la decisione di offrire gratuitamente tutto ciò che il festival comprende nasce dall’esigenza di informare i cittadini non attraverso nozioni, testate giornalistiche o slogan politici, ma tramite la partecipazione diretta e l’esperienza dal vivo, con noi, nel festival. È un’opportunità per cogliere, toccando con mano, l’importanza di multiculturalità e apertura e di vederne concretamente alcuni vantaggi, di sviluppare un’opinione critica che non sia veicolata da mass media e politica.

Soprattutto dal punto di vista della risposta del pubblico, quali sono le tue aspettative per questa edizione?

Spero che il pubblico possa rispondere positivamente, visto la qualità degli ospiti presenti.  Dietro al progetto del festival c’è tanto lavoro, tanta cura, impegno e attenzione alla qualità che spero possano essere riconosciute e sostenute, così come l’accoglienza e la programmazione che noi del centro culturale “Visioni Urbane” di Rionero siamo soliti offrire. È una grande possibilità, soprattutto in un contesto come quello del Vulture, difficile da connettere con realtà internazionali. Per cui mi auguro che il pubblico e la comunità vogliano approfittarne.

L'articolo DONATO PITOIA | “Sud Experience” sinonimo di democrazia e libertà nel nome di Giustino Fortunato proviene da Sound Contest.

]]>
BEPPE CUNICO | Il nuovo disco è “From Now On” https://www.soundcontest.com/beppe-cunico-il-nuovo-disco-e-from-now-on/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=beppe-cunico-il-nuovo-disco-e-from-now-on Tue, 19 Dec 2023 11:00:32 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63251 Decisamente un ritorno in scena che in qualche modo sa incuriosire sin dalle prime battute, sin dai primi video rilasciati in rete ad anticipare tutto il lavoro. Che poi lo conosciamo bene Beppe Cunico, conosciamo questo mondo che dal progressive al pop abbraccia un bel ritorno agli anni ’70 e questa volta devo dire che […]

L'articolo BEPPE CUNICO | Il nuovo disco è “From Now On” proviene da Sound Contest.

]]>
Decisamente un ritorno in scena che in qualche modo sa incuriosire sin dalle prime battute, sin dai primi video rilasciati in rete ad anticipare tutto il lavoro. Che poi lo conosciamo bene Beppe Cunico, conosciamo questo mondo che dal progressive al pop abbraccia un bel ritorno agli anni ’70 e questa volta devo dire che il suono si rende assai più contemporaneo e decisamente solenne. “From Now On” è un disco imperioso che punta dritto alla speranza, alla serenità, al ricongiungersi umano e spirituale prima di tutto con se stessi e poi con la vita e con gli altri. Non distopico il futuro, ma di nuove rinascite. La chitarra protagonista colorata da certezze ritmiche e da arrangiamenti davvero internazionali.

 

Produzione che fa un salto in avanti rispetto all’esordio. La prima cosa che è cambiata?
Progettualità chiara fin dall’inizio e maggior esperienza nella scrittura. Il disco ha preso forma nella sua interezza dentro la mia testa e l’ho sviluppato.

In questi pochissimi anni in realtà sono tante le tecnologie e le mode ad essere state rivoluzionate. Tutto questo come ha lavorato sulle scelte di questo disco?

Il concept del nuovo album si basa su una personale interpretazione della lotta tra il bene Mian (amore, amicizia, altruismo, difesa del bene comune, tutela dell’ambiente) e il male Egon (egoismo, avidità, cinismo, odio) e quindi cerco di gridare al mondo, con parole e musica, il pericolo e la necessità di risvegliarsi e di contrastare molte delle nuove tendenze e stereotipi dannosi, con la speranza di un futuro migliore per le nuove generazioni. Senza lasciarmi influenzare dalle mode del momento, ho lasciato la mia creatività scatenarsi.

 

 

E dal passato prendi sempre quel gusto progressivo ed epico del rock. Hai pensato anche di scollarti da tutto questo? Ci sono citazioni o momenti di questo genere lungo l’ascolto?

La mia composizione prende sicuramente dal passato. Nel primo album “Passion,Love,Heart&Soul”, si sentono molto i 70’,mentre in “From Now On” sono più ‘80 oriented. Sono le decadi musicali che ho vissuto intensamente e saranno sempre al mio fianco. Ho una scrittura molto istintiva e dettata dalle mie limitate capacità come strumentista. Ma sicuramente crescendo da questo punto di vista, in futuro le mie nuove canzoni si evolveranno verso nuovi orizzonti, per il momento sentire Peter Gabriel o Tears For Fears o Steven Wilson in alcuni passaggi è normale…

 

Torni anche ad un video in animazione… bellissimo. Ce lo racconti?

Grazie a Federico Amata, che ha realizzato le tavole e Nicola Elipanni le animazioni, ho voluto evidenziare fin da subito le tematiche del disco. Il grigiore che sta avanzando per portarci ad un futuro distopico, causato da quel manipolo di poche persone avide, corrotte, egoiste che purtroppo governano il mondo e che, ad un certo punto, si rendono conto di aver perso le cose importanti della vita e cercano così un riscatto per lasciare una speranza di vita migliore. E da qui in poi parte il viaggio di Mian, che dopo la sua rinascita, parte alla scoperta del mondo nascosto di gente con i piedi per terra, che vuole ribellarsi a tutto ciò, che vuole combattere la logica del dare la colpa agli altri per sfuggire alle proprie responsabilità, che non vuole più sottostare alla competizione ad ogni costo.

 

Dunque un disco di speranza e non di “fine del mondo”… cosa vedi nel futuro?

Io sono positivo di natura e ho sempre fiducia che la razza umana sia capace di grandi cose. Nonostante i segnali siano molto preoccupanti, io, nel mio piccolo, cerco di fare la mia parte per sovvertire le sorti del mondo, stimolando e sensibilizzando. La musica vera può e deve essere un potente mezzo di comunicazione, di messaggi costruttivi. La storia è costellata da grandi esempi di civiltà promulgati attraverso la Musica.

L'articolo BEPPE CUNICO | Il nuovo disco è “From Now On” proviene da Sound Contest.

]]>
HUMBLE | Girando il mondo, contaminandosi di libertà https://www.soundcontest.com/humble-girando-il-mondo-contaminandosi-di-liberta/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=humble-girando-il-mondo-contaminandosi-di-liberta Mon, 11 Dec 2023 14:27:24 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63169 Facciamo il giro del mondo a bordo del futuro, il futuro della tecnica che tanto si aggrappa a stilemi passati o, per meglio dire, classici. Quella tecnica che oggi ci porta in fuga altrove stando comodamente seduti sul divano di casa. Sono gli Humble, progetto di nuova vita a firma di Umberto De Candia e […]

L'articolo HUMBLE | Girando il mondo, contaminandosi di libertà proviene da Sound Contest.

]]>
Facciamo il giro del mondo a bordo del futuro, il futuro della tecnica che tanto si aggrappa a stilemi passati o, per meglio dire, classici. Quella tecnica che oggi ci porta in fuga altrove stando comodamente seduti sul divano di casa. Sono gli Humble, progetto di nuova vita a firma di Umberto De Candia e Enrico Zurma. Un primo disco che punta subito in alto: “Gateway” che è contaminazione pura e più di tutto è libertà espressiva di genere e di forma. Dal funk al jazz, all’elettronica che cerca il pop fin dentro le soluzioni esotiche. E si fa il giro del mondo… o forse solo di una parte di mondo. Il risultato è che questo disco è assai prezioso e non vale l’attenzione scarna che spesso si dà alle produzioni d’esordio…

 

 

Bellissima produzione, complimenti. Suono suonato… che di tanto in tanto si rifugia dentro soluzioni digitali o sbaglio?

Umberto: credo che il nostro progetto non sarebbe potuto esistere senza il digitale. Ci ha dato la possibilità di poterci esprimere senza pensare ad alcuni costi e ha fatto la differenza.

Enrico: il digitale è ormai un grande strumento per poter produrre musica per chi non può permettersi ore di registrazione prenotate in studio.

Ormai anche a casa informandosi sulle cose giuste e sperimentando si può fare veramente molto (vedi Billie Eilish e Finneas).

 

Calandoci nel dettaglio, come ci avete lavorato? Quanta produzione è stata misurata in modo artigianale e quanto spazio avete lasciato all’improvvisazione?

Umberto: qualcosa di improvvisato c’è, soprattutto ai primi stadi di scrittura, ma “Gateway” è comunque il frutto di 2 anni di lavoro parecchio intensi in cui abbiamo lasciato poco al caso.

Enrico: di improvvisato ci sono le idee che abbiamo lasciato fluire, quando magari ci eravamo prefissati una direzione a livello di giro di accordi o di melodia, a volte il momento porta nella direzione giusta in poco tempo confronto ad una mossa studiata da giorni.

 

 

Nella scrittura come avete abbracciato tanti stili diversi? Siete andati di istinto oppure avete ben misurato le parti?

Umberto: io ed Enrico abbiamo suonato talmente tanto insieme in questi anni da esplorare diversi generi, crescendoci e studiandoli negli anni. I vari generi toccati sono un sunto di dove siamo arrivati finora

Enrico: certi brani vengono da mie forti preferenze musicali, altri ho abbracciato la sfida di provare ad addentrarmi in percorsi nuovi, anche sbattendo la testa più volte.

 

Nello specifico mi incuriosisce sentire come dentro uno stesso disco c’è un pezzo come “Chicago” e poi “Venezia”. Quest’ultimo è davvero ancora agli anni ’50… vero?

Umberto: io volevo essere come Sam Cooke. Forse si é sentito troppo.

Enrico: colpa di Umberto, io sono andato per John Mayer.

 

Citazioni di stile? Radici e ispirazioni? Una panoramica di questo disco così multi-etnico?

Umberto: mi fa sorridere come ognuno ci veda dentro stili, cantanti ed artisti diversi, di brano in brano, io ho avuto ispirazioni precise che qualcuno ha indovinato (Timberlake, Usher, Bruno Mars per le parti cantate e molto hip hop anni 90 per le parti più rap), ma mi piace tantissimo sapere cosa ci hanno sentito gli altri.

Enrico: le radici sono la discomusic, principalmente Nile Rodgers, l’ispirazione è Tom Misch, il neo soul combinato a moltre altre cose, funk, hip-hop, strutture jazz e anche qualcosa di pop per certi versi.

L'articolo HUMBLE | Girando il mondo, contaminandosi di libertà proviene da Sound Contest.

]]>
TONY TAMMARO | La notte dell’epica tamarra https://www.soundcontest.com/tony-tammaro-lepica-tamarra-fa-il-giro-del-mondo/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=tony-tammaro-lepica-tamarra-fa-il-giro-del-mondo Tue, 05 Dec 2023 22:21:27 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=63107 Otto album all’attivo più una raccolta, un numero non quantificabile di “cassette” vendute, tre film, un programma televisivo dagli ascolti altissimi e, udite udite, a consolidare una carriera senza bassi, un’autobiografia scritta a quattro mani con il professor Ignazio Senatore per Graus Edizioni. Tony Tammaro, figlio d’arte, è prima dj nei più rinomati locali partenopei, […]

L'articolo TONY TAMMARO | La notte dell’epica tamarra proviene da Sound Contest.

]]>
Otto album all’attivo più una raccolta, un numero non quantificabile di “cassette” vendute, tre film, un programma televisivo dagli ascolti altissimi e, udite udite, a consolidare una carriera senza bassi, un’autobiografia scritta a quattro mani con il professor Ignazio Senatore per Graus Edizioni. Tony Tammaro, figlio d’arte, è prima dj nei più rinomati locali partenopei, carriera per la quale rinuncia ad un avviato lavoro nell’editoria. Poi cantautore e narratore dell’epica tamarra in the world.

 

(Più di) Trent’anni di carriera vissuti intensamente. Ma com’è cominciato tutto? Soprattutto il tuo illustre genitore che pensava di Tony Tammaro?
Mio padre (Egisto Sarnelli, chansonnier di classici napoletani e di canzoni francesi) possedeva un’immensa libreria su un unico argomento: “la canzone classica napoletana”. Sono cresciuto leggendo i testi e ascoltando le musiche dei grandi autori del passato. A un certo punto non ne ho potuto più di leggere e ascoltare gli altri e ho cominciato a scrivere le mie cose collocandomi nel settore di nicchia della “macchietta napoletana” e mi è andata così bene che ho cominciato a superare il genitore in popolarità. A mio padre le mie canzoni non piacevano, ma poi se n’è fatta una ragione, tanto è vero che curò la regia del mio primo sold out al Palapartenope di Napoli 30 anni fa.

Sei dovuto passare più volte per tutti i comuni campani prima di fare il “salto” in Italia. Ma da lì sei volato a Parigi, Lisbona e dove ancora? Ti mancano solo Mosca e San Pietroburgo per superare Al Bano…

Per l’Est ci stiamo attrezzando. Alla fine a me basta un pubblico di meridionali per organizzare uno spettacolo all’estero e i meridionali sono ovunque, probabilmente anche a Mosca.

Non sono mancate le lectio magistralis in diverse Università italiane. Sei stato invitato come “tamarrologo” o per quali altre competenze o motivazioni?

In quelle circostanze ho parlato dei più svariati argomenti: della filiera produttiva della musica leggera alla facoltà Economia e Commercio di Capua o del mondo della pirateria musicale alla facoltà di Giurisprudenza della Federico II di Napoli. Alla facoltà di Lettere della Federico II parlai della poetica e dell’uso delle rime nella canzone classica napoletana.

Ti sei mai chiesto quali sono le ragioni del tuo successo? Nel senso, come fanno le tue canzoni a mobilitare quasi tre generazioni di insospettabili “tamarri”? Può dipendere dalla tua capacità di analizzare i comportamenti al limite del patologico dell’essere umano?

Ho cercato anch’io spesso le motivazioni di questo fenomeno. Da un lato c’è il fatto che canto in dialetto o, meglio, in lingua napoletana e a noi napoletani fa sempre piacere ascoltare la nostra lingua piuttosto che l’italiano. In più c’è il fatto che ognuno di noi può riconoscersi in certi episodi di vita vissuta che ho narrato, tipo quello del portiere che da bambini ci bucava il pallone mentre giocavamo in cortile o delle tante frittatine di maccheroni che abbiamo consumato in spiaggia. Infine, c’è che una sana risata ogni tanto fa bene a tutti.

Come si è evoluta la figura del “tamarro” dall’inizio della tua carriera? Dalla frittata di maccheroni al SUV che trasformazione c’è stata? Io preferivo il tamarro del passato, più genuino e meno violento…

Assolutamente lo preferivo anch’io. Oggi il tamarro è spesso violento e imbottito di droga. C’è stata un’involuzione del tamarro.

Anni fa traevi ispirazione per i tuoi testi da quel teatro a scena aperta che è Napoli, girovagando con la “visparella” e lasciandoti ispirare da quello che ti accadeva intorno. Oggi basta fare un giro su TikTok (purtroppo) per trovare una realtà che supera ogni fantasia. Quanto utilizzi i social per sondare usi e costumi dei tuoi personaggi e delle tue ambientazioni?

I social li uso tantissimo. Passo quasi sei ore al giorno a rispondere ai miei fans e a documentarmi. Da Facebook in poi, non ho più bisogno di andare in giro con la vespa per cercare personaggi e situazioni da descrivere nelle canzoni. Li trovo belli e pronti sullo schermo del mio smartphone.

L’anno scorso hai festeggiato i 30 anni di carriera (più o meno) con la Notte dei Tamarri, mega evento organizzato nei minimi dettagli al Palapartenope di Napoli. Quest’anno la festa raddoppia con la Notte dei Tamarri 2. Che spettacolo sarà quello del 27 dicembre? E soprattutto la Notte dei Tamarri è diventata ormai una festa tra le feste comandate a tutti gli effetti?

Quest’anno sarà una specie di “Tammaro and friends”. Tantissimi colleghi (non necessariamente tamarri) verranno a trovarmi. In più avrò degli sgargianti costumi di scena e ho fatto preparare una “bomboniera” da regalare a tutti i 3200 spettatori.

Come si pone il tuo personaggio nei confronti del nostro essere donna oggi? Ah no, scusa, questa era per un altro Maestro! A proposito, a quando una “Patrizia” in jazz…? Ormai tutto quello che è “…in jazz” fa tendenza…

Beh, col jazz mi sono cimentato e ho anche suonato discretamente la chitarra semiacustica (quella da jazzista) nel brano ‘E quatt’a notte contenuto nell’album “Yes I cant” del 2010.

Un grande in bocca al lupo per la Notte dei Tamarri e massimo rispetto per tua carriera!

Crepi il lupo, così la lupa resta vedova e si prende la pensione di reversibilità.

L'articolo TONY TAMMARO | La notte dell’epica tamarra proviene da Sound Contest.

]]>
VITTORIO CUCULO | Lo spirito di Massimo Urbani che aleggia in “I Slept in Central Park” https://www.soundcontest.com/vittorio-cuculo-lo-spirito-di-massimo-urbani-che-aleggia-in-i-slept-in-central-park/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=vittorio-cuculo-lo-spirito-di-massimo-urbani-che-aleggia-in-i-slept-in-central-park Fri, 24 Nov 2023 11:21:13 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=62945 Vittorio Cuculo è da considerare ormai un ex enfant prodige del jazz italiano, perché il talentuoso sassofonista si sta sempre più affermando sulla scena jazzistica nazionale grazie alle sue notevoli qualità artistiche. Dall’eccellente padronanza strumentale, fluidità di fraseggio, intensa energia comunicativa, nonché enciclopedico conoscitore del linguaggio bebop, Cuculo si sta costruendo una carriera particolarmente degna […]

L'articolo VITTORIO CUCULO | Lo spirito di Massimo Urbani che aleggia in “I Slept in Central Park” proviene da Sound Contest.

]]>
Vittorio Cuculo è da considerare ormai un ex enfant prodige del jazz italiano, perché il talentuoso sassofonista si sta sempre più affermando sulla scena jazzistica nazionale grazie alle sue notevoli qualità artistiche. Dall’eccellente padronanza strumentale, fluidità di fraseggio, intensa energia comunicativa, nonché enciclopedico conoscitore del linguaggio bebop, Cuculo si sta costruendo una carriera particolarmente degna di nota. Il suo percorso di formazione è ricco di borse di studio (compresa quella prestigiosa della “Berklee College of Music” di Boston) e molti titoli come, ad esempio, il diploma di laurea presso la “Siena Jazz University” e quella al “Biennio Jazz” presso il Conservatorio “Santa Cecilia” di Roma con il massimo dei voti, ma fa anche incetta di premi e riconoscimenti come, fra i tanti,  il premio per solisti del “Concorso Randazzo”, il secondo posto al “Premio Internazionale Massimo Urbani” per “Solisti Jazz”, il premio come “Miglior Solista Strumentale” al concorso internazionale “Johnny Răducanu”, lo “European Jazz Award 2020” assegnatogli dal “Tuscia in Jazz Festival”, il primo premio (ex aequo) ottenuto al “Concorso Nazionale Chicco Bettinardi – Nuovi Talenti del Jazz Italiano” nella “Sezione Solisti”, oltre a essersi classificato al primo posto al “Roma Jazz Contest”. Le sue fulgide doti gli permettono di condividere palco e studio di registrazione, sia in contesti orchestrali che in formazioni ridotte, al fianco di numerose eccellenze del jazz italiano e internazionale, come: Bob Franceschini, Mark Sherman, Jesse Davis, Javier Girotto, Dario Rosciglione, Giorgio Rosciglione, Gegè Munari, Stefano Di Battista, Eric Legnini, Fabrizio Bosso, Enrico Pieranunzi, Andrea Beneventano, Roberto Gatto, Enrico Intra, Marcello Rosa, Paolo Damiani, Massimo Nunzi, Maurizio Giammarco, Mario Corvini, Claudio Corvini, Maurizio Urbani, Emanuele Urso, Adriano Urso, Roberto Spadoni, Danilo Blaiotta, Enrico Mianulli, Greta Panettieri. Oltre a esibirsi in tutta Italia, sia nei famosi club che nei festival di prestigio, il suo talento è stato valorizzato anche fuori dai confini nazionali, in Paesi quali Polonia, Belgio, Francia, Russia, Germania, Romania, Emirati Arabi Uniti. Diverse anche le sue esperienze mediatiche di una certa rilevanza, come Webnotte (Repubblica TV) e Rai Radio 3. Il 20 ottobre, pubblicato da Jando Music e Via Veneto Jazz, è uscito “I Slept in Central Park – A Tribute to Massimo Urbani”, affettuosissimo omaggio a una figura iconica del sassofono jazz come Massimo Urbani, a trent’anni di distanza dalla sua scomparsa. Con Vittorio Cuculo, a condividere questa esperienza discografica, cinque colonne portanti del jazz del calibro di Andrea Beneventano al pianoforte, Dario Rosciglione al contrabbasso, Gegè Munari alla batteria e due superospiti come Stefano Di Battista al sax soprano e alto e Maurizio Urbani (fratello di Massimo) al sax tenore. Un album, intriso di gioioso senso dello swing, in cui l’amore verso Massimo Urbani si manifesta attraverso ogni singola nota.

 

Il 20 ottobre scorso, pubblicato dall’etichetta “Jando Music” in collaborazione con “Via Veneto Jazz”, è uscito il tuo nuovo lavoro discografico intitolato “I Slept in Central Park – A Tribute to Massimo Urbani”, un amorevole omaggio al grande sassofonista jazz Massimo Urbani, prematuramente scomparso trent’anni fa. Al tuo fianco, la formidabile sezione ritmica del 1993 del quartetto di Massimo Urbani: Andrea Beneventano al pianoforte, Dario Rosciglione al contrabbasso e Gegè Munari alla batteria. Più la presenza di due eccezionali guest come Maurizio Urbani (sax tenore) e Stefano Di Battista (sax soprano e sax alto). Soprattutto dal punto di vista emotivo, quali sensazioni hai provato quando sei entrato in studio per registrare questo disco dedicato a un gigante come Massimo Urbani accompagnato proprio dal suo trio del 1993 e impreziosito dalla collaborazione di due straordinari jazzisti come Maurizio Urbani e Stefano Di Battista?

Per me è stata una grande gioia e un grande privilegio aver registrato e condiviso questo lavoro con dei musicisti incredibili come Stefano Di Battista, Maurizio Urbani, Gegè Munari, Andrea Beneventano e Dario   Rosciglione, ognuno con un percorso e una carriera molto importanti, ma ciascuno mosso dall’affetto e dal desiderio di ricordare una figura storica e capitale come quella del grande genio Massimo Urbani. Un ringraziamento speciale va a Eugenio Rubei per essere stato l’ideatore, a Giandomenico Ciaramella, Matteo Pagano, Jando Music e Via Veneto Jazz, Cristiana Piraino, Casa del Jazz, Fondazione Musica per Roma, Luciano Linzi, Ascanio Cusella e a tutto lo staff e ai meravigliosi musicisti con i quali ho avuto l’onore di poter condividere musica in ricordo di Massimo Urbani.

Il 21 ottobre, invece, hai presentato ufficialmente l’album alla “Casa del Jazz” con la formazione al completo con cui hai inciso il CD. Il pubblico come ha vissuto questo concerto e qual è stata la tua percezione emozionale prima, durante e dopo il live?

Quella del 21 ottobre è stata una serata speciale con la presentazione del disco alla Casa del Jazz a Roma. Non nascondo che l’emozione è stata tanta, perché il numeroso e caloroso pubblico ha regalato a tutti noi un Sold Out, per la gradita presenza di altri importanti musicisti che hanno assistito al concerto, ma anche e soprattutto perché ho avvertito netta e chiara la sensazione del grande affetto e ammirazione verso l’importantissima figura di Massimo Urbani. Abbiamo voluto render omaggio a un gigante del mondo del jazz. Tutto si è svolto con questo spirito, dall’introduzione all’evento, fatta da Luciano Linzi, fino all’esecuzione dei brani e alla entusiastica accoglienza e amorevole partecipazione da parte degli ascoltatori.

Venendo al disco, in “I Slept in Central Park – A Tribute to Massimo Urbani” figurano otto brani fra cui anche una sua composizione originale intitolata I Got Rock. Secondo quale criterio hai scelto la tracklist dell’album?

La tracklist è stata impostata sull’idea di eseguire, a trent’anni dalla scomparsa, composizioni che Massimo Urbani amava suonare, con lo spirito di omaggiarlo ma anche – e soprattutto – con la voglia e il desiderio di suonare insieme del buon jazz, in un ideale abbraccio fatto di suoni, ricordi ed emozioni.

Per un sassofonista talentuoso ma ancora giovane come te è senza dubbio molto complicato misurarsi con un tributo dedicato a un’icona sacra del calibro di Massimo Urbani. In questi casi il rischio altissimo è sempre quello di somigliare troppo all’originale, soprattutto nel fraseggio. Tu, pur giustamente ispirandoti a lui, che tipo di lavoro hai fatto su te stesso per cercare di trovare una tua identità personale nel rendergli omaggio senza cedere alla tentazione di emularlo?

Ogni sassofonista ha dei suoi punti di riferimento e un proprio bagaglio di preparazione che lo contraddistingue. Nel caso di Massimo Urbani questo aspetto è ancora più evidente: il suo sax graffiava quando era il momento, diventava virtuoso e inarrivabile sul registro acuto, ma anche lirico e romantico, intenso e appassionato. Lui aveva un suono profondo e generoso come pochi riuscivano a ottenere. Il suo strumento restituiva ciò che lui era. Ho sempre ascoltato e studiato Urbani. Non ho mai avuto l’onore di poterlo conoscere personalmente, ma rappresenta e rappresenterà sempre un enorme esempio di smisurato talento e infinita musicalità. Posso dire di aver avuto la fortuna e il privilegio di poter condividere musica con grandi jazzisti che hanno suonato tanto con lui e, proprio grazie alla loro musica, la loro esperienza e grande professionalità, cerco sempre di migliorarmi e far il possibile per crescere artisticamente e personalmente.

L’indispensabile presenza e la guida sicura di cinque jazzisti di assoluto livello come Andrea Beneventano, Dario Rosciglione, Gegè Munari, Maurizio Urbani e Stefano Di Battista ti hanno aiutato a interiorizzare meglio lo stile e lo spirito di Massimo Urbani?

Assolutamente sì. Suonare con musicisti di quella levatura sicuramente stimola a dare il meglio. Ti dà grande sicurezza e soprattutto ti dà la possibilità di immergerti completamente nel meraviglioso mondo del jazz. Di Massimo Urbani conosco le incisioni, ho quasi tutti i suoi lavori discografici, lo ho ascoltato e studiato molto   e continuo a farlo.  Ammiro tanto un tratto favoloso del suo temperamento che si percepisce nella sua musica: la generosità del suono e la totale identificazione con il sax. È stato un privilegio assoluto e una grande emozione condividere musica con strepitosi jazzisti per onorare la memoria di una figura così importante e storica come quella di Urbani.

Mentre eri in studio per registrare i brani del CD hai pensato più all’aspetto interpretativo dello stile di Massimo Urbani oppure hai focalizzato di più l’attenzione sull’aspetto squisitamente tecnico del suo sassofonismo?

L’esperienza in studio per registrare questo lavoro, per ricordare e rendere omaggio a Massimo Urbani è stata davvero molto intensa ed emozionante. Ho cercato di esprimere tutto ciò che sono ispirandomi al grande suono, alla profonda anima e alla sua genialità unica. Spero sia stato il modo migliore per ricordarlo a trent’anni dalla sua prematura scomparsa.

Ora, riascoltando il disco a distanza di tempo dall’incisione, ritieni di essere riuscito nell’intento di trasmettere il tuo messaggio artistico attraverso “I Slept in Central Park – A Tribute to Massimo Urbani”?

Spero di sì. Registrare quei brani con il Trio ’93 con i grandi Gegè Munari, Andrea Beneventano, Dario Rosciglione e con due ospiti sensazionali come Stefano Di Battista e Maurizio Urbani, credo sia stato il modo migliore di rendere omaggio a questo fuoriclasse assoluto.

Oltre a presentare l’album il più possibile in giro per l’Italia e magari anche all’estero, qual è l’augurio più grande che fai a te stesso dopo la pubblicazione di questo CD?

Mi auguro che il jazz trovi sempre più ascolto e spazio. E per quanto mi riguarda che riesca a migliorarmi e crescere sempre come uomo e come artista.

L'articolo VITTORIO CUCULO | Lo spirito di Massimo Urbani che aleggia in “I Slept in Central Park” proviene da Sound Contest.

]]>
PAOLO FIORENTINO | L’Arte è un rischio che tutti dovrebbero correre https://www.soundcontest.com/paolo-fiorentino-larte-e-un-rischio-che-tutti-dovrebbero-correre/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=paolo-fiorentino-larte-e-un-rischio-che-tutti-dovrebbero-correre Sat, 04 Nov 2023 18:26:50 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=62738 Paolo Fiorentino, artista poliedrico e psicologo, porta in scena il 10 novembre a Napoli un inedito spettacolo di teatro-canzone in cui esplora i temi della libertà, dell’amore e della difficile ricerca della verità. “Sott’ ’a maschera”, in programma all’Auditorium Salvo d’Acquisto, in via Morghen 58 al Vomero, è un lavoro complesso e affascinante. Abbiamo parlato […]

L'articolo PAOLO FIORENTINO | L’Arte è un rischio che tutti dovrebbero correre proviene da Sound Contest.

]]>
Paolo Fiorentino, artista poliedrico e psicologo, porta in scena il 10 novembre a Napoli un inedito spettacolo di teatro-canzone in cui esplora i temi della libertà, dell’amore e della difficile ricerca della verità. “Sott’ ’a maschera”, in programma all’Auditorium Salvo d’Acquisto, in via Morghen 58 al Vomero, è un lavoro complesso e affascinante. Abbiamo parlato di questo e tanto altro con l’autore, disponibile e travolgente.

foto di BOSK

 

Partiamo dalla tua formazione musicale?
Per quanto mi riguarda credo sia riduttivo parlare di formazione musicale preferisco parlare di formazione artistica.  Pertanto, diventare psicoterapeuta così come aver studiato filosofia, scenografia e drammaturgia ha influito sulla mia identità di musicista. Fare l’artista per me implica una formazione globale. L’arte è un rischio, ma anche un’opportunità di crescita esistenziale, se viene fatto un lavoro su di sé. Dedicarsi solo all’apprendimento di una pratica artistica trascurando la propria personalità non porta lontano.

Come psicoterapeuta ho avuto in terapia molti artisti, affermati e meno noti, scrittori, pittori, musicisti, attori, ballerini ecc. con in quali ho avuto un un’intesa immediata. Molti di loro, per quanto abili nella loro arte, si sentivano bloccati per questioni legate alla loro vita e non riuscivano ad usare l’arte come cura di sè. Non sapevano gestire la loro ‘musa’ ed erano travolti dall’angoscia. Non credo che l’arte debba essere vissuta come un tormento, un destino tragico come accadeva ai romantici o ai musicisti del club dei 27. Pensa ad Amy Winehouse grande cantante con una dote vocale strabiliante che alla fine ha scritto una canzone, Rehab, contro la comunità di riabilitazione che l’aveva accolta per curarla dalle dipendenze. Cosa è successo? Non ha trovato un ascolto nei professionisti che l’hanno accolta? Non ha voluto curarsi per paura di perdere la sua capacità creativa? Molti artisti la pensano in questa maniera. Si affezionano alla sofferenza la usano come carburante per poi rovinarsi la vita.  Preferisco gli artisti che fanno dell’arte un momento di evoluzione della loro anima.

Comunque, scusa la digressione. Se vuoi sapere più semplicemente come ho imparato a suonare posso dirti che, come chitarrista, sono prevalentemente un autodidatta. Ho invece approfondito lo studio del canto e della vocalità. La mia prima maestra è stata Genny Sorrenti, voce e leader del gruppo progressive dei Saint Just, al quale in origine partecipava Bob Fix, oggi straordinario ingegnere del suono, che ha masterizzato i miei due dischi. Genny mi ha insegnato i rudimenti tecnici, la respirazione, l’impostazione del diaframma ecc. e lentamente mi ha introdotto al canto lirico che in seguito ho perfezionato.

Che rapporto c’è tra il (Paolo) musicista e lo psicologo? Quanto l’uno ispira (o limita) l’altro?
Sono sempre la stessa persona che vive linguaggi ed esperienze diverse. La psicoterapia è una scienza, ma è anche un’arte che non può essere standardizzata, perché ogni persona è unica e differente da un’altra; allo stesso modo la musica è una cura che produce effetti ansiolitici e antidepressivi. Ci sono studi che lo dimostrano ampiamente. Pensa alla musicoterapia o all’art therapy più in generale.  Siamo abituati a immaginare le nostre vite come vite specializzate per raggiungere risultati competitivi e performanti in un ambito particolare. Non possiamo essere persone con più talenti, questo può confondere chi tende a farsi un’immagine stereotipata delle persone. Per me non è così. Ho una personalità eterogenea.

Ciò che tiene insieme, l’artista e il clinico nel mio mondo interno è l’amore per la conoscenza e l’interesse per gli altri. L’arte alimenta la mia pratica clinica e quest’ultima è fonte d’ispirazione soprattutto quando mi confronto con storie di persone che mi sembrano avere un valore quasi universale. Le persone hanno difficoltà ad accettare più aspetti di una persona ed anche io sono stato influenzato da questo pregiudizio. All’inizio è stato difficile mettere insieme queste due dimensioni che in realtà non sono state mai molto distanti. La psicoanalisi è una scienza ma allo stesso tempo e anche un’arte perché la cura non può essere standardizzata e manualizzata. Ogni persona è unica ci vuole una sensibilità estetica quando cerchi di curarla con l’ascolto e le parole. Non è possibile fare entrare in uno schema teorico o in una diagnosi la vita di una persona. Freud lo sapeva bene. A proposito dell’amore, per esempio, diceva: “Chiedetelo ai poeti” quasi a voler suggerire che la vita è un mistero che sfugge alla scienza.  Freud parlava della psicoanalisi come una talking cure, ma in realtà non è solo un dialogo narrativo quello che accade tra paziente e psicoanalista.

Il fondamento della psicoanalisi così come della musica è l’ascolto. Ci sono studi che stanno andando in questa direzione in psicoanalisi e in altre forme di psicoterapia. Durante una conversazione terapeutica è necessario saper cogliere i ‘pensieri sonori’ che attraversano il campo relazionale. Se le parole dello psicoterapeuta non “suonano bene” se non ‘toccano emotivamente’ l’altro, la seduta rischia di diventare un chiacchierare a vuoto. Inoltre, bisogna avere un “terzo orecchio” per capire la canzone del paziente, quel ritornello emozionale che organizza il suo carattere.

Il tuo approccio alla musica è curativo, nel senso che serve a sollevarti dalle ansie della vita, o invece le tue composizioni nascono da un animo sereno e libero?
Comporre canzoni e scrivere di teatro, o fare psicoterapia, nasce da una esigenza profonda, dalle gioie e dai dolori della mia vita che sento il bisogno di condividere con gli altri.  Quando la storia degli altri risuona con la mia nasce un cambiamento in me e negli altri. Non so spiegarlo bene. Tra arte e psicoterapia cambia il livello di responsabilità etica. Ripeto, per me le due dimensioni creano una sinergia creativa.

Ci racconti delle esperienze musicali trascorse dall’autoproduzione di “DeCantare” fino allo spettacolo “Sott’ ’a maschera”?
Il mio percorso come musicista è stato molto tortuoso, poiché sono molto critico ed esigente verso me stesso. Mi sono fermato a volte per molto tempo lungo la strada artistica attratto dalla vita o per questioni personali. Per quanto “DeCantare” fosse un disco molto apprezzato io sentivo che mancava qualcosa e non l’ho portato avanti. Molti colleghi musicisti e psicologi mi hanno rimproverato. Non dico che non abbiamo ragione, ma io avevo l’esigenza di maturare qualcosa in me. Oggi tutti vogliono visibilità immediata. Bene, io sono l’opposto, mi prendo tempo. Fare arte per me è un modo per approssimarmi alla verità e se l’opera per me non soddisfa questa esigenza, allora mi fermo. Tra questo disco è l’altro ho molto vissuto, ho fatto alcune esperienze con artisti di varia estrazione, finché non ho maturato una nuova visione della canzone anche se molti mi stanno dicendo che colgono una continuità tra il primo e il secondo disco. Questo mi fa molto piacere.

Com’è nata l’idea di questo spettacolo? Cosa ti ha spinto a portare “il teatro nella musica” e a “rappresentare” la tua musica rafforzandola con i visual? 
La canzone è un medium fantastico che a volte può raggiungere livelli estetici alti, ma alcuni argomenti come la libertà, e in particolare quella che io chiamo la questione della “carcerazione psichica”, vale a dire di come le persone costruiscono le loro personali prigioni emotive ed esistenziali, richiedevano uno spazio di riflessione più ampio e per questo ho pensato all’inizio ad un musical il cui copione ho dato in lettura a Lello Arena e a Marisa Laurito. Persone disponibili e fantastiche. Con Marisa stavamo pensando di metterlo in scena al Trianon il teatro diretto da lei. Io vedevo lei nella parte di Lady Liberty, ma anche Francesco Cotticelli, un critico teatrale con il quale ne avevo parlato.  Tuttavia, i costi del musical erano troppo alti per come avevo immaginato l’allestimento. Per questo abbiamo dovuto rimandare eravamo da poco usciti dalla pandemia e nessun produttore esecutivo voleva rischiare.

Questa volta, tuttavia, non avevo intenzione di fermarmi e da quel copione ho tratto un’egloga, un dialogo teatrale tra due personaggi ambientato in un universo sospeso tra la cultura barocca e il contemporaneo. E’ nato un altro progetto che nella forma è diverso dal musical e che s’ispira al Cantastorie di Ferdinando Russo e all’egloga La coppella di Giovanbattista Basile. S’ispira molto liberamente. Mi preme raccontare la collaborazione tra me e Salvatore Iermano che ha impersonato il pazzariello, è stato uno scambio artistico molto fertile. E’ un attore con grandi potenzialità espressive, in grado di passare dal tragico al comico con grande versatilità. Avrete modo di apprezzarlo. Per quanto riguarda i Visual, ho fatto un incontro fortunato con una pittrice che ha messo la sua ispirazione al servizio del mio lavoro, sia sviluppando l’immagine di copertina del disco che interpretando alcune canzoni con la sua “pittura in movimento”, come la chiamo io. Sto parlando di Giulia Ambriola un’artista romana con la quale abbiamo una buona intesa artistica.

Hai sempre scritto in napoletano o c’è stato un momento di passaggio tra la produzione italiana e quella “in lingua napoletana”?

In passato avevo scritto in napoletano, ma non ne ero del tutto convinto. Chi mi ha spinto a seguire questa strada e stato Roberto Vernetti, che ha intuito una qualità profonda nel mio modo di scrivere. Ha insistito fino a convincermi del tutto. E non mi pento affatto di questa scelta. Naturalmente nelle canzoni il mio napoletano è diverso da quello classico, che invece anche dal punto di vista lessicale è più presente nella parte teatrale dello spettacolo.

Mi sembra che “Sott’ ’a maschera” ti rappresenti in pieno: l’amore per Napoli e per New York, i temi della libertà, dell’amore, del disagio e della ricerca della verità. C’è tutto di te o manca qualcosa?

C’è sempre qualcosa che manca in un lavoro artistico, è impossibile rappresentare tutto, forse è possibile sognare di farlo, ma anche Michelangelo con il suo Mosè ad un certo punto scagliò il suo martello contro la statua esclamando: “perché non parli?”, mostrando una palese insoddisfazione. L’arte si approssima alla verità ma non può rappresentarla totalmente. Ogni opera è un passaggio non è mai un punto d’arrivo. Forse per Michelangelo sì! (ride)

Addentrandoci nello spettacolo, come nasce l’idea di far incontrare una figura iconica come il Pazzariello napoletano e un cantastorie del Seicento? E per quale esigenza? Cosa li lega?
Il pazzariello è la figura dell’imbonitore che emerge nella seconda metà del Settecento, ma per me è il diretto discendente del giullare di corte che troviamo nel XVII secolo dal quale proviene. Ho immaginato che una macchina del tempo avesse risvegliato lui e il suo padrone, un principe napoletano del Seicento scappato dal suo palazzo per fare il cantastorie. Entrambi sono ritornati dal passato per determinare il valore di questa nuova “poteca” della canzone la cui insegna è la Statua della Libertà che indossa la maschera di Pulcinella. Ho voluto mettere in contatto tradizione e contemporaneo, immagine e mito.  La Statua della Libertà non rappresenta l’America. New york non è l’America. La statua rappresenta l’archetipo della Grande Madre e Xenia la dea dell’ospitalità e dell’accoglienza. Lady liberty non c’entra con Wall Street, il liberismo e il Vietnam va ben oltre l’americanismo. Lei è amata da tutti i popoli che soffrono di sradicamento culturale. Non ha niente a che vedere con la colonizzazione del mondo da parte dell’occidente.

A partire da questo incontro tra Pulcinella e Lady Liberty nascono alcune considerazioni sul mondo contemporaneo che i due personaggi fanno guardandolo dal passato. Mi preme ricordare che le riprese video sono state fatte nel complesso monumentale seicentesco di Santa Maria della Vita che ora ospita una struttura per senza tetto, homeless, diretto da Antonio Rulli.  E’ una struttura incantevole che si trova nel quartiere Sanità, poco distante dal cimitero delle Fontanelle.

In generale, in che epoca è ambientata la narrazione?
E perché un’altra icona come la Statua della Libertà indossa la maschera di Pulcinella?

Molti mi hanno chiesto perché la Lady Liberty indossa la maschera di Pulcinella. Non mi va di dare una risposta chiusa. Il potere di questa immagine invita alla riflessione e sollecita associazioni inedite che lascio allo spettatore. Ho già detto molto. I personaggi sono del Seicento e vivono sospesi in quella dimensione temporale, ma conoscono la Napoli contemporanea e ne discutono.

Tanti nomi importanti hanno concorso alla realizzazione dello spettacolo (napoletani e non), a partire da Piero De Asmundis.

Piero De Asmundis è stato il produttore musicale del mio primo disco, è un caro amico che in questo nuovo lavoro ha svolto la direzione artistica dello spettacolo e ha avuto un ruolo fondamentale e autonomo nella post-produzione. Un musicista di grandi qualità che passa facilmente dal jazz alla canzone d’autore. E’ stato lui ad invitare Daniele Sepe nel mio primo disco in cui ha eseguito due assoli strepitosi in due miei brani L’uva che diventa vino e E’ dolce. Tuttavia, la produzione di “Sott’ ‘a maschera” è di Roberto Vernetti, che ha una lunga esperienza nazionale ed estera. E’ un innovatore nel campo del Sound Design e nel modo di concepire la produzione musicale. Non interviene se non per valorizzare ciò che l’autore ha composto. La produzione di molti artisti ormai noti come Elisa, Malika Ayane, Mahmood, Raiz, Teresa de Sio, Anna Oxa Raiz e tanti altri è stata sua. Ha vinto un David di Donatello come produttore della canzone Arrivederci amore ciao cantata da Caterina Caselli.  Siamo diventati molto amici. Le nostre conversazioni telefoniche sono diventate così profonde da immaginare di scrivere un libro su arte, produzione musicale e psicoanalisi. Un libro che descrive la nostra collaborazione, ma che vuole far luce sul senso della creatività.

Però, non posso evitare di ricordare tra i miei amici e collaboratori Claudio Fagnani, esperto nella programmazione e indispensabile consulente musicale durante le fasi della preproduzione a cui spesso ho chiesto di registrare parti di piano e alcune di basso. Claudio è stato di grande aiuto nel lavoro che io e Roberto insieme a lui abbiamo portato avanti.

Chi non riuscisse a venire in teatro il 10 novembre a Napoli dove può ascoltare le tue nuove canzoni?

Per ora solo in digitale sulle varie piattaforme, ma c’è la concreta possibilità che prendano presto la forma di un disco.

L'articolo PAOLO FIORENTINO | L’Arte è un rischio che tutti dovrebbero correre proviene da Sound Contest.

]]>
UNKLE KOOK | Il suono randagio, eclettico, psichedelico, d’autore https://www.soundcontest.com/unkle-kook-il-suono-randagio-eclettico-psichedelico-dautore/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=unkle-kook-il-suono-randagio-eclettico-psichedelico-dautore Tue, 31 Oct 2023 08:07:36 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=62685 Un disco come “Coming in Bunches” coglie l’attenzione sin da subito. Sembra un gioco, un esperimento di scena, poi sembra un esercizio di stile retrò, un contenitore dentro cui fare ricerca e sperimentare sensazioni. Il rock’n’roll poi il surf ma anche gocce di psichedelia e scenari distopici. Un disco in presa diretta per gli Unkle […]

L'articolo UNKLE KOOK | Il suono randagio, eclettico, psichedelico, d’autore proviene da Sound Contest.

]]>
Un disco come “Coming in Bunches” coglie l’attenzione sin da subito. Sembra un gioco, un esperimento di scena, poi sembra un esercizio di stile retrò, un contenitore dentro cui fare ricerca e sperimentare sensazioni. Il rock’n’roll poi il surf ma anche gocce di psichedelia e scenari distopici. Un disco in presa diretta per gli Unkle Kook, un disco analogico, su nastro, di pancia e di mani come dice la didascalia.

 

 

Partiamo dalla produzione. In presa diretta, radici di antichi modi… il suono suonato. Un manifesto contro il progresso?

Assolutamente no, non credo sia il progresso una connotazione creativa. Al massimo sono gli strumenti del progresso che possono essere sfruttati a fini creativi ma credo che al rock‘n‘roll bastino suoni con una ricchezza armonica che ha raggiunto il suo apice di progresso e non è ancora stato superato. Si pensi alla chitarra elettrica, sono i chitarristi che la fanno progredire, basti pensare che spesso si prediligono strumenti vecchi di cinquant’anni proprio per le caratteristiche sonore.

E dunque in questa presa diretta avete mai lasciato l’imperfezione a testimoniare l’umanità in luogo di correzioni che oggi si fanno con un click?

Nel disco ci sono molte imperfezioni che compongono i brani, Rango ne è un esempio visto che per le caratteristiche espressive non si usa il click (del metronomo in questo caso).

Dal surf a certi origami dai Balcani. Il rock su tutto in varie salse. Dall’Italia?

Dall’Italia al momento nessuna convocazione ma stiamo facendo amicizia.

E poi il contributo di psichedelia non manca… la copertina prima di tutto. Come la leggiamo?

Un deserto libero da ogni essere vivente. Le lucertole sono l’unico essere sopravvissuto ad una catastrofe. Chissà che non riescano a fare meglio dell’essere umano.

E dopo tutto questo tempo non ancora troviamo un video ufficiale… un disco simile ha un forte potere visionario però… ci state pensando?

Certamente ci stiamo pensando, ci siamo infilati in idee pretenziose. Questione di tempo…

L'articolo UNKLE KOOK | Il suono randagio, eclettico, psichedelico, d’autore proviene da Sound Contest.

]]>
OUT OF THE BLUE | Un disco di storia, di contaminazione, di donne leggendarie https://www.soundcontest.com/out-of-the-blue-un-disco-di-storia-di-contaminazione-di-donne-leggendarie/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=out-of-the-blue-un-disco-di-storia-di-contaminazione-di-donne-leggendarie Mon, 16 Oct 2023 10:12:23 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=62459 L’idea di questo disco dal titolo “Pirate Queens” è geniale quanto coraggiosa: il famoso producer Giovanni Pollastri incontra la voce della cantante americana Annie Saltzman Pini e i due, sotto la firma di Out of the Blue, danno i natali ad un disco dal suono ricco di maestosità visionaria che dalle allegorie celtiche si spostano […]

L'articolo OUT OF THE BLUE | Un disco di storia, di contaminazione, di donne leggendarie proviene da Sound Contest.

]]>
L’idea di questo disco dal titolo “Pirate Queens” è geniale quanto coraggiosa: il famoso producer Giovanni Pollastri incontra la voce della cantante americana Annie Saltzman Pini e i due, sotto la firma di Out of the Blue, danno i natali ad un disco dal suono ricco di maestosità visionaria che dalle allegorie celtiche si spostano con naturalezza dentro il rock più metropolitano. Da Tim Buckley di “Song to the Siren” alle volute dei This Mortal Coin… e da qui poi la lista si farebbe troppo lunga per poterla arginare con poco. Canzoni inedite che parlano delle storiche e leggendarie piratesse vissute non solo sui libri di storia o dentro le pellicole di Hollywood. C’è la storia dentro questo disco… quella vera…

 

 

Un’idea originale certamente e assai potente negli obiettivi. Come nasce? Anzi perché?

Giovanni: Nasce dall’ascolto di un album dedicato ai pirati intitolato “Rogue Gallery”, prodotto da Johnny Depp e Gore Verbinsky, il regista dei primi film dei “Pirati dei Caraibi”. Ci sono i cosiddetti “sea shanties”, ossia canti del mare e traditionals del mondo piratesco reinterpretati da grandi artisti come Bono, Nick Cave, Sting, Brian Ferry e molti altri. Ci sono anche cantanti donne, come Lucinda Williams ad esempio, e mi sono chiesto se stessero cantando di piratesse. Non era così, per cui ho pensato di farlo io e di chiedere a Annie, con cui avevo già lavorato in passato, se fosse interessata a lavorarci.

Annie: Quando ho ricevuto la telefonata di Giovanni, ero “on the dock of the bay” vicino a Boston, proprio nelle vicinanze di un museo dedicato ai pirati. Ho subito cercato un libro dedicato alle donne pirata, soprannominate “Pirate Queens”, e da lì ho iniziato il mio viaggio alla scoperta di grandi donne quasi sconosciute, ma che hanno lasciato un marchio indelebile nella storia della pirateria e, al tempo stesso, nella storia dell’emancipazione delle donne.

 

Esistono piratesse rimaste fuori dall’elenco? Come le avete scelte, fatta eccezione di quel “paio” davvero celebri?

Annie: Le abbiamo scelte in base alle loro storie, accattivanti e curiose al tempo stesso. In alcuni casi è stato facile portare in musica la vita di alcune di loro, in altri casi invece particolarmente complicato. Sayyda Al Hurra, ad esempio, piratessa molto conosciuta nel mondo arabo, è stato un vero grattacapo, ma volevamo fortemente averla presente nell’album per il suo ruolo di donna in un ambiente particolarmente difficile in cui emergere. È stata dura ma siamo riusciti a trovare una formula musicale e lirica – una parte è cantata in arabo-marocchino – e ne siamo fieri.

 

Il suono e gli arrangiamenti: ogni canzone, ogni “biografia” ha determinato il suono e la forma o le cose sono slegate?

Giovanni: Inizialmente non avevo intenzione in particolar modo di contestualizzare il suono e gli arrangiamenti nei confronti della storia raccontata, poi però mi sono quasi istintivamente trovato a dare comunque una sorta di ambientazione sonora, per cui mi sono reso conto che stavo scrivendo la colonna sonora della vita di ogni piratessa. Oltre agli strumenti veri e propri, ossia chitarra, basso, percussioni, piano, violino, mandolino e altri strumenti necessari all’arrangiamento, ho usato anche catene, spade, boccali di ruhm, rumori di spari, cannoni, suoni della natura come onde, gocce d’acqua e altro ancora per creare una vera e propria atmosfera tipica del mondo in cui la piratessa raccontata ha vissuto.

 

Dal duo al disco: chi ha messo le mani al suono che sentiamo?

Giovanni: Io di solito lavoro alle musiche e alla registrazione di tutti gli strumenti (in questo album abbiamo comunque alcuni ospiti: Peppe Giannuzzi al violino, Simona Giacomazzo all’organetto in “Lady Mary Killigrew”, e Bruno Saitta alle percussioni in “Anne Bonny”). Mi sono occupato anche degli arrangiamenti e della produzione.

Annie: Io mi occupo dei testi e delle melodie, ma spesso ci scambiamo i ruoli per cui io intervengo sulle musiche e Giovanni sui testi e sulle melodie. Lavoriamo molto bene insieme da parecchi anni, abbiamo una sinergia molto rara e in tutti questi anni abbiamo sempre lavorato con molto entusiasmo e armonia.

 

Disco che tra l’altro inizia ad avere il suo tempo: col senno di poi cosa avete raccolto? Il pubblico è stato curioso di scoprire che infondo il pirata non è solo uomo?

Annie: Certamente. Sono stati tutti molto sorpresi di scoprire non solo che sono esistite le ‘Pirate Queens’, ossia le donne pirata, ma che erano anche delle “badass women”, ossia donne “con gli attributi”! Non a caso sono proprio riuscite a conquistare la famigerata uguaglianza dimostrando di essere allo stesso livello degli uomini, non solo a bordo delle navi, mentre noi siamo riusciti a conquistare il nostro pubblico, sia con la musica che con i testi, ma soprattutto con la passione nel raccontare la vita delle piratesse presenti nel nostro album.

Giovanni: “Pirate Queens” è uscito l’8 Marzo, appositamente per la celebrazione della donna. Ogni anno possiamo quindi riproporre il nostro album, come se fosse ‘senza tempo’, ma che puntualmente potrebbe essere riproposto proprio per la sua caratteristica dedicata alla figura femminile e al suo ruolo nella società, sia passata che odierna, visto che il dibattito sul ruolo della donna è ancora molto aperto e discusso. Noi siamo ancora in piena fase promozionale sia in Italia che all’estero, essendo un album recepito molto positivamente sia da un punto di vista sonoro che per l’argomento trattato. Al momento, oltre all’Italia, stiamo lavorando alla promozione di “Pirate Queens” in Germania, Repubblica Ceca, Belgio e Olanda.

L'articolo OUT OF THE BLUE | Un disco di storia, di contaminazione, di donne leggendarie proviene da Sound Contest.

]]>