Fabio Merciai, Autore presso Sound Contest https://www.soundcontest.com/author/fabiomer/ Musica e altri linguaggi Wed, 05 Jan 2022 09:51:19 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.1.1 KING CRIMSON | Red (1974) https://www.soundcontest.com/king-crimson-red-1974/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=king-crimson-red-1974 Wed, 05 Jan 2022 09:51:19 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=53425 Erano passati ormai cinque anni dalla pubblicazione di “In The Court of Crimson King”, il disco a cui fu dato, a torto o a ragione, il sigillo di capostipite di un nuovo filone musicale che dalla terra di Albione si espanse prima di tutto in Europa e in seguito, ma con minore intensità, nel resto […]

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Erano passati ormai cinque anni dalla pubblicazione di “In The Court of Crimson King”, il disco a cui fu dato, a torto o a ragione, il sigillo di capostipite di un nuovo filone musicale che dalla terra di Albione si espanse prima di tutto in Europa e in seguito, ma con minore intensità, nel resto del mondo. Il Progressive Rock dunque nacque con i King Crimson, ed era il 1969 e nel corso degli anni a seguire, ci fu un fiorire di talentuosi artisti che si fregiarono con merito di questa etichetta. Conosciamo più o meno tutti la sequenza di dischi di notevole spessore e, perché no, di sperimentazione, ad opera di quel genio di Robert Fripp che, leader indubbio della band fin dal primo disco decide con “RED”, di chiudere un capitolo: la storia dei King Crimson romantici del Progressive. In realtà il ‘capitolo’ era già da tempo sotto inchiesta, i lavori chitarristici di Fripp nei due precedenti album erano già proiettati verso un futuro che apriva le porte ad una sperimentazione molto più spinta ed audace. Anche la band, reduce da una tournée americana viene in parte rimaneggiata, David Cross viene allontanato e compare solo come session man nei credits del disco. Restano insieme a Fripp (chitarra e mellotron), John Wetton (basso e voce) e Bill Bruford (batteria), tutti gli altri solo pagati a prestazione, e parliamo di Ian McDonald (fiati), Mel Collins (Sax soprano) e lo stesso David Cross (violino).

E’ cosi che nasce “RED”, dopo appena una settimana dalla chiusura del tour americano, i tre si chiudono in studio coadiuvati dai soliti collaboratori storici del Re Cremisi e registrano il disco che traghetterà la lunga stagione del prog su una sponda fatta di chitarrismo squadrato e ossessivo… si aprono le porte al Punk/New Wave. Non a caso il mitico Curt Cobain definì questo capolavoro “il più grande album di tutti i tempi”.

Apre il disco il brano che dà il titolo all’album, ossessivo e penetrante come un trapano nel muro alle 7 di mattina, un riff di chitarra ripetuta all’infinito e sovraincisa a diverse tonalità, i 6 minuti più lunghi di sempre, un’interminabile performance con la lente d’ingrandimento puntata sul gran lavoro di batteria (Bruford, un grande) e basso.

Segue Fallen Angel, la classica ballad alla Crimson, Wetton abbracciato dagli arpeggi graffianti di Fripp e fraseggi di tromba (Mark Charig) e oboe (Robin Miller)… c’è un uso di chitarra acustica che viene usata da Fripp per l’ultima volta con i King Crimson.

One More Red Nightmare chiude il lato A del disco, un pezzo tiratissimo, un riff ripetuto per tutto il brano pare avvolgerci in una spirale tenebrosa, è un tappeto steso a favore dei numerosi interventi di Ian McDonald e Mel Collins ai sax che pare illuminino la voce di Wetton. C’è una struttura di fiati da brividi, tutti in pista a ricamare dietro ad una melodia che vuole farsi spazio ma cede alla potenza di fuoco degli strumenti, qui Bill Bruford è da oscar! Una curiosità, il testo narra di un incidente aereo raccontato come un incubo, testo di Wetton che era terrorizzato dal volare.

Lato B, Providence, solo strumentale, il violino di David Cross dà il via ed è difficile credere che esista uno spartito di questo brano, forse un canovaccio ma niente di più, d’altronde chi ha seguito i King Crimson dal vivo sa cosa vuol dire seguire una traccia ma non sapere tra due minuti cosa si suona. Effetti elettronici, violino elettrificato, chitarra distorta al massimo, il basso ‘slappato’ (e siamo nel ’74!!!) di Wetton ed un lavoro di Bruford da farci studiare su a chi lo strumento vuole suonarlo davvero.

E’ stato solo un preludio finora, quattro brani che portano dritti ad uno dei più bei pezzi mai scritti:

Starless, oltre non si va, una poesia irraggiungibile per chiunque!

Una sinfonia di archi e mellotron che presentano un Wetton che sembra una carezza al cuore, e l’anima di McDonald che prende per mano Fripp in un fraseggio commuovente. La voce miscelata alla malinconia delle note del sax riesce a scaldarci il cuore pur lasciandoci un’immensa tristezza fino alle note prese dalle corde della Gibson e sostenute da una incredibile paranoia creata da una sezione ritmica da ansia crescente… la strada ci porterà dove c’è speranza di trovarsi, o ri-trovarsi, per un cammino dove finalmente si evitano le vie di fuga. Se “RED” è il miglior album dei KC, Starless è l’apoteosi, è tutta lì in 12 e passa minuti di vita assoluta, i primi 4 minuti sono un incanto, quanto di più intenso e profondo possa esserci, un inno all’amore che si perderà nei successivi minuti di profonda tristezza fino alle grida di aiuto del finale, che riprende il tema iniziale accelerando il tempo.

E’ l’epilogo schizoide!

Siamo assai strani noi, ascoltiamo musica da tutta la vita, parliamo dei nostri vecchi dischi e ci brilla una luce negli occhi, ci fa riconoscere tra di noi, ci fa provare le stesse emozioni nello stesso momento e per le stesse cose. La musica ha avuto ovviamente la sua normale evoluzione, ma tornare indietro non è solo nostalgia, noi questa musica non l’abbiamo solo ascoltata, l’abbiamo vissuta, siamo nati con lei, le emozioni di chi giovane oggi ascolta “RED” non possono essere uguali alle nostre, c’è un salto temporale e di esperienze che è incolmabile, il periodo magico non l’hanno vissuto. All’epoca non sapevamo che ascoltavamo il Progressive Rock, allora non capivo che anche loro che la musica la creavano avevano bisogno sì di tecnica, ma soprattutto di anima e di cuore, perché comporre Starless senza questi due ingredienti non è possibile, è per questo che amo questo disco e questo brano più di tutti, sono un inguaribile vecchio romanticone lo so, ma mi piaccio tanto così.

Buona musica.

 

Musicisti

Robert Fripp, Chitarra, Mellotron
John Wetton, Basso, Voce
Bill Bruford, Batteria
David Cross, Violino
Mel Collins, Sax Soprano
Ian McDonald, Sax Alto
Robin Miller, Oboe
Mark Charig, Cornetta

Tracklist

01. Red
02. Fallen Angel
03. One More Red Nightmare
04. Providence
05. Starless

 

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JETHRO TULL | Aqualung https://www.soundcontest.com/jethro-tull-aqualung-2/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=jethro-tull-aqualung-2 Sun, 24 Oct 2021 11:20:09 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=51979 Nel 1971 i JETHRO TULL pubblicano il loro quarto album dando seguito allo stile del periodo che voleva che i lavori pop seguissero il tema unico nello sviluppo dei brani. Il concept album fu AQUALUNG che trattava, nei testi soprattutto, la superficialità dilagante nella società, e le contraddizioni della religione.

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JETHRO TULL
Aqualung
Reprise Records
1971

Anziché studiare a scuola studiavo sui dischi, sul Ciao 2001, che era quasi l’unica rivista musicale esistente all’epoca, mi innamoravo di qualsiasi cosa riguardasse la musica che era (ed è) l’unica cosa che non ti tradiva, me la ritrovavo sempre lì disponibile, un disco, uno strumento, un articolo, un concerto… tutta per me senza nessun altro che te la potesse portar via, non avevo paura di perderla, era (ed è, ribadisco) tutta mia.
Ricordo il rammarico in quegli anni da adolescente di non essere nato in tempo per vivere appieno la nascita di movimenti musicali e di artisti che già avevano scritto parte della storia del Rock.

Mi capitò di innamorarmi della copertina di Stand Up, un disco che non avevo mai ascoltato e che scoprii (il rammarico, appunto) già vecchio di un paio d’anni. Nell’espositore del negozio di dischi, sotto al separatore ‘Jethro Tull’  trovai Aqualung, fresco di arrivo, decisi di prenderlo subito. Facevo sempre gli stessi gesti quando compravo un disco, uscivo dal negozio vicino casa con la busta stretta in mano,  a passo svelto tornavo a casa, pulsante in ON sullo stereo, e via a scartare il LongPlaying… quel profumo di disco nuovo mi inebriava mente e anima, come quando riconosci la donna che ami dal suo odore e ad occhi chiusi gli dai tutto te stesso fidandoti completamente… meravigliosamente perso…

Arrivai quindi con qualche anno di ritardo sui JT, cominciai praticamente con il loro 4° album e la formazione era quasi la stessa dal 1967 ma proprio a partire da Aqualung il bassista Jeffrey Hammond, chiamato dal suo vecchio e caro amico di Jan Anderson, andò a sostituire Glen Cornick. Ed è proprio a Jeffrey (a cui per scherzo fu aggiunto un secondo Hammond al cognome) che si scoprì poi che gli furono dedicati tre brani, uno per disco da This Was, Stand Up e Benefit ben prima del suo arrivo nella band.

Aqualung compie quest’anno il mezzo secolo, portato benissimo direi e, se non fosse che il Progressive oggi sia considerato dai più così anacronistico, sarebbe potuto essere stato pubblicato anche qualche anno fa senza sfigurate affatto, anzi! Ho quindi colto l’occasione del 50° compleanno per ascoltare con rinnovata passione quest’opera d’arte del 1971 che, già a partire dalla copertina incuriosisce non poco: è un dipinto di Burton Silverman, fatto ad acquarello,  che lo stesso autore (nato nel 1928 in America) dichiara essere un suo autoritratto e che il furbo Jan prende ad esempio e si esibisce vestendosi in modo molto simile al barbone raffigurato, per cui nell’immaginario collettivo il frontman diventa ‘quello della cover’, il clochard Aqualung. Capelli arruffati e barba lunga non curata unita ad un abbigliamento trasandato con tanto di cappotto strappato, diventano il ‘marchio’ estetico della band che ancora vive in noi oggi. Si dice che le tre opere originarie di Silverman che vengono raffigurate come front cover, interno (la band al completo) e retro copertina (lo stesso barbone seduto sul bordo di un marciapiede con un cane) siano state pagate all’artista americano 1500 dollari e siano oggi di proprietà di un collezionista.

Il disco si sarebbe dovuto intitolare My God ma, a causa di un bootleg uscito in quel periodo con quel nome, la band decise per Aqualung per non inficiare la vendita dell’LP ufficiale. Curiosamente, nonostante Jan Anderson non avesse mai dichiarato che Aqualung fosse un ‘concept album’, la critica lo ha sempre definito tale. Intanto le due facciate vengono intitolate rispettivamente Aqualung (lato A) e My God (lato B) ed i temi sviluppati nel disco effettivamente sono due, nel primo lato, l’argomento trattato si rivolge ad un sentimento di disumanizzazione della società affrontando la compassione ed il disprezzo rivolti verso i propri simili (vedi il barbone in copertina e nel retro) mentre il lato B narra delle ipocrisie della religione e le contraddizioni che l’uomo spesso subisce passivamente senza relazionarsi in modo più sincero verso la stessa, e qui si vada ad osservare l’interno della copertina dove la band viene raffigurata all’interno di una chiesa in atteggiamenti e abbigliamenti non consoni all’ambiente. Dissacrante di certo.

JETHRO TULL si lasciano un po’ indietro il blues suonato nei precedenti album, strizzano l’occhio al rock più duro con riff di chitarra sporcata da distorsori che prima non erano usati con così tanta frequenza, il brano d’apertura Aqualung, lo sancisce a pieno titolo, anche gli assoli chitarristici vengono suonati con il piglio del miglior rockettaro, tanto che anche Jimmy Page, che si trovava nello stesso studio durante le registrazioni del brano (stava incidendo il IV album con gli Zeppelin), ebbe modo di complimentarsi per il lavoro di Martin Barre. La costruzione musicale sostiene in modo perfetto i testi che pare vengano urlati verso il barbone che guarda in modo molesto le ragazzine a passeggio. Emblematico l’urlo ‘Hey Aqualung’ come un rimprovero, una condanna per l’atteggiamento del personaggio.

Anche Cross-eyed Mary tratta lo stesso argomento, qui è una ragazzina (Mary, strabica) che rivolge le sue attenzioni a uomini molto più maturi della sua giovane età, provando a prostituirsi scegliendo con  cura soggetti ricchi e pretendendo salati pagamenti. Ed anche qui la musica viene a sostegno del testo con intrecci di mellotron (riproducendo sezioni di archi) e flauto; questo brano verrà spesso eseguito dal vivo e diventerà, per la sua stessa costruzione melodica, un marchio di fabbrica per la band.

Passo velocemente da Mother goose, dove i flauti soprano e alto si rincorrono con arpeggi di chitarra acustica, ad un brano che, di tutta la produzione dei Jethro Tull, mi sta veramente nel cuore…

Wond’ring aloud, una perla davvero unica, peccato duri poco, troppo poco (in questo periodo la sto ascoltando a ciclo continuo),  appena 1’53” minuti di tenerezza e amore. Racconta di un uomo che al mattino, sveglio dopo una notte accanto alla sua amata donna, sente i profumi della colazione che Lei gli sta preparando. La donna arriva da lui e sparge briciole di pane tostato sul letto, la guarda e dolcemente scuote la testa sorridendo… il testo recita ‘Last night sipped the sunset, my hands in her hair…l’altra notte ho assaporato il tramonto, le mie mani nei suoi capelli, ed ancora ‘And it’s only the giving that makes you what you areEd è solo il donare che ti rende quello che sei. Che altro dire, chitarra acustica con un sognante tappeto al pianoforte con la chitarra di Barre a contrappuntare e sottolineare la magnificenza di un momento di vita che resta indelebile nella storia di chiunque. E’ una ballad degna della migliore produzione mai ascoltata, il brano che più mi colpì all’epoca ed ancora oggi mi tocca profondamente. Nel seguito  troverete una versione ‘long’ di questo brano, vi esorto ad ascoltarlo.

Il lato Aqualung si chiude con Up to me, e qui si ribalta la storia precedente, lei vive un rapporto instabile ma che per fortuna di entrambi finisce sempre bene, perché nonostante tutto lei torna sempre dall’uomo che la rende felice… ‘she’s running up to me’! La matrice è un blues che però sviluppa un particolare colloquio tra percussioni e flauto che sottolineano la relativa leggerezza del brano (come costruzione musicale) pur trattando un argomento non certo poco ‘leggero’.

Siamo al cambio di facciata, lato B intitolato My God, sovverte la logica del rapporto degli uomini con Dio, qui si immagina che l’uomo ha creato Dio per cui tutto è manipolato al contrario. In alto a destra, sul retro della copertina, ci sono 9 punti che dovrebbero chiarire (nelle intenzioni dell’autore) in che modo l’ordine sia sovvertito, e ricorre il tema del disco che viene sviluppato in My God in modo più esplicito esaltando il disprezzo dell’uomo verso i suoi simili. E’ un blues classico che richiama le sonorità di Aqualung, con chitarre belle toste e ritmo trascinante,  così come il blues seguente Hyman 43, dove la chitarra assume un ruolo quasi da voce ‘incazzata’. Infatti l’accordo preso senza spingere le corde sulla tastiera ma suonato col plettro quasi a percussione (la tecnica usata si chiama ‘hacking’), ricorda le urla dei predicatori all’indirizzo dei suoi seguaci. Anche qui il testo fa riferimento ad uno dei classici riti religiosi, siamo in chiesa e viene esposto il cartello ‘Inno 43’, ad indicare che i fedeli sono invitati a cantare appunto l’inno che ad un certo punto recita ‘’…O Padre nell’alto dei cieli, sorridi a tuo figlio quaggiù, che è indaffarato nei suoi giochi di soldi, con la sua donna e la sua pistola…’, ed a chiusura di ogni strofa, si ripete la frase ‘Oh Jesus save me!’.

Slipstream, altra piccola perla (brevissima) suonata con due chitarre acustiche che fungono una da base, arpeggiando l’accompagnamento e l’altra fraseggia con la melodia. Gli archi entrano in un secondo momento, quasi ad imitare il suono dell’acqua che rumoreggia creado l’ultimo vortice, il ‘risucchio’ appunto, qui questa parola viene usata metaforicamente per far riflettere sull’ultimo atto del prete (cameriere di Dio) a cui si dà la mancia prima di ricevere il ‘conto’… il riferimento è alla morte.

Segue uno dei cavalli di battaglia ‘live’ dei JT, quella Locomotive breath che chiude da decenni i concerti di Anderson & Co. e che si apre col pianoforte di Evan per poi racchiudere tutti gli altri strumenti in un crescendo che ormai è storia, e non solo dei Jethro Tull. Ancora la tecnica dell’ hancking sulla chitarra di Barre che accompagna all’ascolto di uno dei migliori assoli di flauto del menestrello di Blackpool.

Siamo all’epilogo, Wind up chiude l’album in modo strepitoso, musicalmente è strutturato in tre parti: quella iniziale con una voce quasi narrante accompagnata dalla chitarra acustica dove pian piano si ascolta  il pianoforte prendere forza fino a quando la voce ritorna ai normali toni sorretta prima dai riff di chitarra elettrica, e poi  seguita da tutto il resto degli strumenti, ed infine chiudersi così come iniziata, con la voce quasi sussurrata. Nel testo la denuncia finale nei confronti delle istituzioni religiose è più esplicito, Il protagonista (lo stesso Anderson?) accusa il cattivo rapporto con i ministri di Dio che parlano in suo nome ma che in realtà l’autore definisce mistificatori e ingannevoli servi di un sistema che lo hanno indottrinato (‘caricato’ come un orologio la domenica a messa) sin da piccolo, dai banchi di scuola, alle lezioni di catechismo. E’ così che il protagonista alla fine si lascia tutto alle spalle, si disfa delle regole e cercherà, da quel momento, un rapporto più vero, sincero e personale con Dio.

Buona musica.

 

(Il tempo passa ma la classe e il valore di certi musicisti e di alcune composizioni musicali restano gli stessi. Di seguito una versione “orchestrale” di Aqualung del 2004, quindi molto più recente, interpretata dallo stesso Anderson accompagnato dalla Neue Philharmonie Frankfurt diretta dal M.o John O’Hara.)

Musicisti:

Ian Anderson, voce, chitarra folk, flauto
Martin Barre, chitarra
John Evan, pianoforte, organo, mellotron
Jeffrey Hammond, basso, flauto dolce, voce
Clive Bunker, batteria, percussioni

Tracklist:

Lato A – Aqualung

Aqualung – 6:31
Cross-Eyed Mary – 4:06
Cheap Day Return – 1:21
Mother Goose – 3:51
Wond’ring Aloud – 1:53
Up To Me – 3:14

Lato B – My God

My God – 7:08
Hymn 43 – 3:14
Slipstream – 1:13
Locomotive Breath – 4:23
Wind Up – 6:01

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BUDDY GUY | Born to play guitar https://www.soundcontest.com/buddy-guy-born-to-play-guitar/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=buddy-guy-born-to-play-guitar Fri, 15 Oct 2021 18:17:54 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=51875 Un capolavoro del blues classico che, sebbene pubblicato nel 2015, sia in versione doppio LP che in versione CD, mantiene ancora intatta tutta la sua attualità ed è tuttora disponibile in commercio e sulle principali piattaforme digitali.

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BUDDY GUY
Born to play guitar
Silvertone
2015

Pubblicato alla fine di luglio del 2015, questo disco segna il rispettabile traguardo del 69esimo album del longevo Buddy Guy che, alla soglia degli 80 anni ci regala ancora delle perle di blues come questo “Born to Play Guitar”.

Un album su etichetta Silvertone che contiene 14 brani, tutti di altissimo valore, pubblicato sia in vinile, in doppio LP, che in Compact Disc.

Buddy nasce in Louisiana e appena 20enne si trasferisce a Chicago dove inizia la carriera di bluesman collaborando con i più grandi musicisti dell’epoca. Il suo primo disco viene pubblicato ne 1965, prenderà parte ad una serie interminabile di concerti e tra i tanti verrà invitato al Crossroads Guitar Festival, organizzato da Eric Clapton che lo ha sempre considerato suo mentore e principale ispiratore.

Il disco di oggi spazia dal classico blues di Chicago (Born to play guitar) al blues rock più attuale ed elettrico (Whiskey beer & wine), ed anche le collaborazioni non mancano: Billy Gibbons degli ZZ TOP in Wear you Out, brano tostissimo, la bellissima voce soul di Van Morrison in un brano dedicato al compianto BB King (Flesh & Bone) ed anche Joss Stone entra a far parte della schiera degli ospiti duettando con Buddy in You What it Takes, un brano atipico come costruzione per il bluesman.

È magico e delicato allo stesso tempo questo disco, scorre via veloce ed è emozionante se si pensa all’energia che sprigiona ascoltandolo, Buddy con le corde della sua Fender tra i denti da filo da torcere a chitarristi blues che hanno meno della metà dei suoi anni, basta immergersi nell’ascolto del brano di apertura, quello che da il titolo all’album: Born to Play Guitar.

N.B. Per chi apprezza le buone incisioni, e siamo in tanti, questa è da 8. Merita.

Buona musica gente.

 

Tracklist:

Side A

Born to Play guitar
Wear you out (feat. Billy Gibbons)
Backup up mama
Too late (feat. Kim Wilson)

Side B

Whiskey bere & wine
Kiss me Quick (feat. Kim Wilson)
Crying out of one eventi
(Baby) You got what it takes (feat. Joss Stone)

Side C

Turn me wild
Crazy world
Smarter than I was

Side D

Thick like Mississippi Mud
Flash & bone (feat. Van Morrison dedicated  to B.B.King)
Come backup Muddy

 

 

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WISHBONE ASH | Live dates https://www.soundcontest.com/wishbone-ash-live-dates/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=wishbone-ash-live-dates Fri, 08 Oct 2021 18:06:45 +0000 https://www.soundcontest.com/?p=51648 Il loro debutto discografico avvenne nel 1970, con un album che portava il loro stesso nome e che conteneva brani che per anni i W.A. avevano portato in giro nei locali e nei concerti. La vena progressive era evidente nella costruzione dei brani, così come i richiami al folk nelle voci, ma la matrice hard la faceva da padrona soprattutto con l’uso delle chitarre che erano diventate il marchio di fabbrica del gruppo.

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Se oggi ascoltiamo e apprezziamo tanto l’hard rock e l’heavy metal, probabilmente lo dobbiamo in buona parte ai Wishbone Ash, addirittura Steve Harris degli Iron Maiden in un’intervista dichiarò che per capire i loro primi lavori bastava ascoltare ARGUS dei Wishbone Ash… se lo dice lui!

La band originaria si formò verso la metà degli anni 60 in una piccola cittadina del Devon, Torquay in Gran Bretagna dove i fratelli Turner, entrambi chitarristi e con l’aggiunta di Phil Hesketh alla batteria formarono i Torinoes. Solita gavetta, cambi di formazione, nome e città nel corso degli anni li portarono infine all’incontro con Miles Copeland (fratello di Stewart Copeland, batterista prima di Curved Air e poi di Police) manager in erba, che si adoperò per trovare un nuovo chitarrista, visto che Glenn, uno dei due fratelli fondatori della band decise di abbandonare il gruppo. Arrivarono ben due chitarristi Ted Turner (stesso cognome ma nessuna parentela con Martin) e Andy Powell che sarebbero stati, nel corso degli anni a venire, l’anima blues/rock del W.A.

Da quel momento lo show business cominciò a girare nel verso giusto, nel ’69 si fecero notare dal pubblico dei concerti, aprendo gli show ai Ten Years After, Black Sabbath e altri fino a quando un certo Ritchie Blackmore chiarrista dei Deep Purple, li notò una sera che aprirono un loro concerto e li presentò alla MCA Records dove ottennero finalmente un contratto.

Il loro debutto discografico avvenne nel 1970, con un album che portava il loro stesso nome e che conteneva brani che per anni i W.A. avevano portato in giro nei locali e nei concerti. La vena progressive era evidente nella costruzione dei brani, così come i richiami al folk nelle voci, ma la matrice hard la faceva da padrona soprattutto con l’uso delle chitarre che erano diventate il marchio di fabbrica del gruppo. Riuscivano a creare intrecci ritmici senza mai sovrapporsi o darsi fastidio l’un l’altro, e nelle esibizioni dal vivo lo si intuiva chiaramente che entrambi i chitarristi lavoravano insieme per il gruppo e non per mettersi in evidenza a discapito dell’altro.

L’anno successivo arriva nei negozi Pilgrimage, un altro ottimo prodotto che questa volta strizza l’occhio al jazz-rock, i brani strumentali sono più di quelli cantati e il disco arriva alla posizione n. 14 della classifica di vendita in Inghilterra. Durante le registrazioni, negli studi è presente John Lennon a cui era stato raccontato delle notevoli performance di Turner come chitarrista, infatti lo volle con lui per fargli incidere l’assolo presente nel brano Cripled Inside, che verrà incluso poi nell’album Imagine.

Arriviamo al 1972, quando vede la luce il disco forse più apprezzato dei Wishbone, quel ARGUS che tutti citano per indicare ‘l’opera’ della band inglese, e non a caso è quello che vende di più. E’ il periodo dei concept album ed anche questo pare non sfuggire alla regola, nessuno del gruppo conferma ma l’ambientazione da ‘leggende e guerre celtiche’ dei testi, ben supportati da un ritorno più marcato al progressive e dalla bellissima cover prodotta dallo Studio Hipgnosys, porta inevitabilmente a queste conclusioni, peraltro mai smentite ne da Andy Powell ne dagli altri della band.

L’anno seguente segna la prima avvisaglia di un calo d’ispirazione degli autori, non è un buon momento per WISHBONE FOUR (il quarto album che nasce tra episodi sfortunati come il furto di tutta la strumentazione durante un tour in America e conseguente annullamento delle successive date e un ricovero d’urgenza per Martin Turner appena rientrato in Inghilterra) che ricordiamolo, avrebbe almeno dovuto tenere il passo del precedente capolavoro, quell’Argus mai più avvicinato da nessun altro lavoro della band. Intanto la MCA continua a voler sfruttare il momento favorevole per le vendite e preme gli autori affinché si producessero in nuove session per tirar fuori altri dischi.

E’ così che viene pubblicato un doppio live tratto da registrazioni fatte durante un tour del 1973 in Gran Bretagna. Qui ci troviamo il meglio della produzione Wishbone, le chicche sono tutte qui suonate in modo superlativo e la band è al meglio, sezione ritmica possente e precisa, le due chitarre indiscusse regine del palco a rincorrersi tra una nota e un assolo, l’hard qui si sente molto più chiaramente rispetto ai dischi in studio, loro sono soprattutto una ‘live band’. Da segnalare una stupenda versione del brano di apertura del concerto The King Will Come e Throw Down the Sword, altra perla. Una versione da 17 minuti di Phoenix (dal loro disco d’esordio), una psichedelica The Pilgrim (da Pilgrimage) e quasi tutto il secondo lato di Argus riproposto in versione, se possibile, più hard.

Per chiudere, una piccola nota a margine: nel corso degli anni questo disco – LIVE DATES, che raccoglie il meglio della produzione dei W.A. – l’ho acquistato tre volte… l’ultima tre giorni fa, invogliato da una recensione di Argus che mi ha fatto tornare la voglia di riascoltarlo.

Buona musica a tutti

Tracks:

The King Will Come
Warrior
Throw Down The Sword
Rock ‘n Roll Widow
Ballad Of The Beacon
Baby What You Want Me To Do
The Pilgrim
Blowin’ Free
Jailbait
Lady Whisky
Phoenix

 

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